Il lusso è in crisi, si è scritto da più parti e si è percepito attraverso le scelte di ridimensionamento e cambiamento di alcuni grandi marchi, solitamente accostati proprio a questo segmento “alto” di consumi, che hanno coinvolto anche il sistema a trazione artigiana della subfornitura.

 

Ogni crisi è anche però occasione di fare ordine nella pratica e nei concetti di fondo, su quale possa essere oggi una via socialmente, economicamente e ambientalmente sostenibile al lusso in Italia, ossia date sia la composizione del nostro sistema produttivo, sia soprattutto la proposizione di valore che rende i nostri prodotti così speciali, elemento fondamentale per strutturare un’offerta di lusso.

Le dinamiche pre-crisi erano evidenti e piuttosto consolidate: un mercato sempre più globale e standardizzato, a misura delle nuove mecche degli alto spendenti (Cina, Emirati Arabi, Russia); una crescente concentrazione oligopolistica di marchi che solo pochi mega gruppi – nessuno dei quali italiano – avevano le risorse per rendere globali; una ha in generato riorganizzazione industriale dell’offerta, sempre più standardizzata nella produzione e nei canali di vendita (store tutti uguali, in vie dello shopping tutte uguali); marginalizzazione del sistema della subfornitura indipendente, spesso internalizzato per acquisirne stabilmente le competenze.

La pandemia e le sue conseguenze di medio-lungo termine, e soprattutto l’incerta riorganizzazione dell’ordine geopolitico ed economico mondiale, hanno inferto duri colpi a un sistema produttivo iper finanziarizzato e costretto alla crescita continua. Ne è derivata la “crisi del lusso”, che ha colpito in particolare quei marchi che più avevano investito sulla componente simbolica, anche a scapito della qualità, ma che ha in generale comportato tagli e dolorose riorganizzazioni, guidate dalla logica – e dai sentimenti – della finanza, per i quali il sistema delle imprese artigiane ha sofferto e continua a soffrire.

Si può pensare di tornare indietro all’equilibrio precedente, considerando quando è accaduto solo una spiacevole parentesi, o ci sono questioni più strutturali che rendono il cambiamento tendenzialmente permanente, obbligandoci a trovare un nuovo equilibrio? È presto per dirlo, anche se alcune direzioni, soprattutto la fine del monopolio occidentale del gusto, e dunque del lusso e lo scarso potere d’acquisto (e quindi centralità di mercato) delle culture creatrici di gusto, Italia in primis, appaiono consolidate e ricche di conseguenze.

 

Consolidata è soprattutto la percezione di essere tornati ad una fase storica nella quale le identità e gli interessi, nazionali e locali, tornano ad avere assoluta cittadinanza: non significa che le catene globali del valore siano scomparse, o destinate a scomparire, ma che interrogarsi sulla “via italiana” allo sviluppo economico, in particolare su un versante dello sviluppo economico legato a temi a noi così familiari, come i prodotti di alta gamma e le esperienze e i valori simbolici ad essi connessi , è quantomai opportuno.

 

Tornare dunque a riflettere su cosa vuol dire “lusso” nel 2025 per il sistema produttivo e culturale italiano è necessario, e farlo su una rivista di cultura artigiana rappresenta una scelta di campo forte e chiara: un’idea di lusso italiano sostenibile oggi non può essere scissa dalla componente umana, il lusso è il prodotto di sapere, tradizione, cultura, ricerca della perfezione che ha a monte il lavoro delle persone nella sua declinazione più felice.

Non è la sola via, dacché si pensa e si pratica nel mondo un’idea industriale di lusso, dove l’elemento preponderante è quello simbolico, del valore ostentativo del brand, e finanziario, della forza di imporlo. Le imprese artigiane, nella loro articolazione preponderante di sub-fornitori, hanno contribuito e contribuiscono attivamente a questa idea di lusso – e non possiamo che felicitarci se le imprese che associamo e sosteniamo creano valore – ma è evidente che questa non può essere la sola linea di azione. Perché questa idea di lusso non è “nostra”, quindi siamo troppo dipendenti dall’esterno; perché non è sostenibile; perché, se rimane monopolista, comprime quelle potenzialità che, nonostante le difficoltà, un’idea di lusso più vicina alla nostra cultura potrebbe avere.

L’intervista all’eccelso camiciaio Siniscalchi in questo numero illustra un esempio preclaro di artigiano del lusso, in grado di coniugare un prodotto senza pari con una storia, dei volti, un’idea di lavoro, ma non è il solo. Qualche tempo fa, a Venezia, ho avuto la mia personale epifania del lusso italiano portando a uno straordinario artigiano, Demis Marin di Ramosalso, un vecchio loden in cachemire da reinventare. Con non comune sapienza e creatività, un vecchio capo regalo dei miei genitori ha ripreso vita come giacca da viaggio, dando corpo a uno storyboard che avevamo condiviso e che rispondeva alla mia condizione di perenne movimento in treno. Il tutto al costo di, forse, una t-shirt di qualche grandissimo marchio senza volto e con la missione di remunerare innanzitutto gli azionisti.

Sono due esempi della moda, prima logica compagna del lusso, ma si potrebbe tranquillamente spaziare dal design al cibo, dal turismo alla mobilità: il nostro lusso è interazione, accoglienza, personalizzazione, lavoro. Non è di lusso perché è costoso, e tale per mantenere il marchio esclusivo e gonfiare dunque i profitti per anonimi e acefali azionisti, può essere costoso perché in trasparenza remunera lavoro, tempo di studio e ricerca, componenti di alta qualità selezionati anche per durare nel tempo, laddove le collezioni del lusso industriale hanno evidente la scadenza.

 

La sfida per gli artigiani, alla macchina da cucire come ai fornelli, è dunque quella di fare emergere il valore del lavoro, della competenza e della relazione, raccontando, coinvolgendo, comunicando. È quello che hanno fatto con successo anche grandi marchi del lusso, che proprio in virtù di un valore “vero” si sono salvati dalla crisi. Vale per chi possiede un proprio marchio, per chi pensa di dare vita a uno, ma anche per quei “terzisti”, oggi in pericolo per mancanza di competenze e sempre più difficile continuità aziendale, la cui centralità nel nostro sistema produttivo non è mai sufficientemente riconosciuta.

 

Per farlo serve passione – non introversa – per il proprio mestiere e voglia di trasmetterla, attenzione alle tecnologie come fattore abilitante, curiosità e cultura. E attenzione a quell’altro aspetto della nostra idea moderna di lusso, che è la qualità della vita come liquido amniotico in cui prodotti belli e ben vivere si sviluppano. Certo per chi se li poteva permettere, ma condividendo un’idea comune di benessere, anche nel lavoro, che è assai diversa, eticamente oltre che praticamente, dal prodotto standard, per non parlare di quello che “magicamente” diventa di lusso per l’apposizione di un logo su qualcosa che è stata realizzata da poveri lavoratori sfruttati in un tugurio. Il nostro lusso nasce al meglio dove la distanza tra chi cucina o cuce e chi degusta o indossa non è, culturalmente ma soprattutto economicamente, così incolmabile, appunto perché la relazione ha così tanto spazio.

Non è l’unica via, ma è la nostra via, e dobbiamo tornare a volerle bene e a praticarla.


Paolo Manfredi

Paolo Manfredi

Milanese, 50 anni. È consulente per la Trasformazione digitale, ideatore e responsabile del progetto Artibici e responsabile del Progetto speciale PNRR di Confartigianato Imprese. Ha studiato Storia contemporanea. Scrive di innovazione, politica e ristoranti. È autore di “L’economia del su misura. Artigiani, innovazione, digitale” (2016), “Provincia non Periferia. Innovare le diversità italiane” (2016) e di “L’eccellenza non basta. L’economia paziente che serve all’Italia” (2023). Da settembre 2019 cura il blog “Grimpeur. Scalare la montagna dell’innovazione inclusiva” sulla pagina web di Nòva del Sole 24 Ore.

SPIRITO ARTIGIANO

Un progetto della Fondazione Manlio e Maria Letizia Germozzi onlus

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