Viviamo e operiamo in un’epoca che è improvvisamente diventata anche troppo interessante. La pandemia ha improvvisamente congelato le economie e le società mondiali, la guerra in Ucraina ha messo in dubbio un’idea di ordine mondiale che sembrava affaticata ma solida, la crisi energetica e delle materie prime ha reso sempre più difficile mantenere quegli standard di vita e di lavoro che parevano acquisiti fino all’inizio del 2020.
I cambiamenti, improvvisi e violenti, ridisegnano anche gli scenari di senso e di (faticoso) governo dei fenomeni. La globalizzazione, come sistema di organizzazione della produzione di valore, ha smesso di essere un treno inarrestabile ed è ferma come le navi alla fonda davanti alle città cinesi in attesa di caricare merci non più così sicure e disponibili. Il Mercato si è dimostrato incapace di restituire autonomamente soluzioni in grado di non fare spegnere il motore dello sviluppo. Lo Stato ha di contro rapidamente ripreso vita proprio per fare ripartire quel motore grippato.
La situazione è di grande incertezza, non priva di opportunità, ma anche di grandi rischi legati all’insicurezza globale, alla pessima distribuzione delle risorse, alla messa in discussione degli assetti democratici come punti di non ritorno.
Il mondo, anche il nostro, e i mercati dopo queste tempeste perfette potranno essere forse più giusti e sostenibili, ma anche al contrario più gerarchici, concentrati, sbilanciati e violenti. Bisogna acquisire, velocemente, nuove mappe per orientarsi, perché le vecchie funzionano sempre meno bene e fra poco saranno da buttare.
Vale per tutti e anche per il mondo degli artigiani e delle micro e piccole imprese, come sistema di organizzazione della produzione, ma anche come sistema di organizzazione della società, profondamente ancorato a valori come la coesione sociale, l’operosità, la salvaguardia della biodiversità culturale. Valori legati in Italia a un sistema di identità territoriali che solo a uno sguardo superficiale potevano apparire unicamente retaggi del passato e non un patrimonio, certamente da fare evolvere ma anche da proteggere dall’indistinto, che premia solo ed esclusivamente le grandi aggregazioni (industrie e città) e la massa critica, per cui la soluzione più conveniente e popolare è quella che va bene per tutti.
Il legame tra spopolamento dei territori, che fa male a tutto il Paese, e perdita di quelle subculture locali che univano chiese e palazzi, botteghe artigiane, piatti tipici e tradizioni in favore della razionalizzazione e della modernizzazione indiscriminata è evidente, come è evidente che esso debba essere in qualche modo contrastato. Molto meno evidente è invece il come farlo e soprattutto la necessità a tale scopo di riattivare in senso moderno il legame tra territorio e culture produttive, gemelli siamesi che si salvano insieme o periscono insieme.
Il rinnovato ruolo dello Stato e del settore pubblico per fare ripartire lo sviluppo economico a fronte di nuove sfide globali come la doppia transizione (digitale ed ecologica) delle società e delle imprese, supportato da risorse straordinarie come quelle del PNRR, consente di, anzi obbliga a, ripensare anche radicalmente modelli di sviluppo, politiche, allocazione di risorse alternative alle narrazioni del caos e della vittoria dei più forti e cattivi.
È il tempo dell’economia paziente, non come rifugio dal caos esterno, ma come opzione consapevole e moderna di creazione e condivisione del valore per società avanzate ma più coese e solide perché più giuste e attente.
Economia paziente significa attenzione all’impatto degli investimenti e alla loro sostenibilità sociale e ambientale oltre che finanziaria. Significa attenzione ai territori e alle economie di prossimità come un valore da salvaguardare, anche ponendo dei limiti alla furia del mercato, che imporrebbe pochi attori (imprese e territori) super efficienti, a scapito del resto. Significa, in sostanza, difendere e modernizzare il miglior lascito della nostra storia, la biodiversità, e traghettarla attraverso i nuovi perigliosi mari in cui stiamo vivendo, non come pezzi da museo, ma come elementi di una cultura del vivere e del lavoro che è ancora, anzi sempre più, attuale, sostenibile desiderabile.
Tre sono le chiavi principali di questo processo: la tecnologia, perché l’economia paziente non è marginale o snobistica negazione della modernità, ma sua necessaria sottomissione all’uomo e alla società, non viceversa; le competenze, perché solo chi sa come e verso dove cambiare ed evolvere potrà affrontare la tempesta minimizzando i rischi; la collaborazione, perché servono soluzioni e intelligenze collettive.
Le imprese artigiane devono immaginarsi nel futuro, non come sopravvissute, ma come esempio più nobile di economia paziente, dove competenza, passione e attenzione hanno la meglio sulle leggi del puro profitto.
Per questo dovranno sempre più immaginare come collaborare in modi nuovi tra loro e con gli altri attori dei territori, a partire da quelle amministrazioni locali che il PNRR chiama ad un ruolo strategico di motori di sviluppo, importantissimo ma assolutamente al di fuori della loro portata senza aiuti.
Molto del futuro, non solo degli artigiani e dei territori, ma del nostro stile di vita, passerà da qui.
Foto di Matthias Wewering da Pixabay
Paolo Manfredi
Milanese, 50 anni. È consulente per la Trasformazione digitale, ideatore e responsabile del progetto Artibici e responsabile del Progetto speciale PNRR di Confartigianato Imprese. Ha studiato Storia contemporanea. Scrive di innovazione, politica e ristoranti. È autore di “L’economia del su misura. Artigiani, innovazione, digitale” (2016), “Provincia non Periferia. Innovare le diversità italiane” (2016) e di “L’eccellenza non basta. L’economia paziente che serve all’Italia” (2023). Da settembre 2019 cura il blog “Grimpeur. Scalare la montagna dell’innovazione inclusiva” sulla pagina web di Nòva del Sole 24 Ore.