L’Italia ha bisogno di una nuova legge quadro sull’artigianato. Non per aggiornare formalmente un testo normativo del 1985, ma per restituire piena visibilità politica a un’intera civiltà del lavoro. Perché una legge, quando è fatta bene, non serve solo a regolare: serve a riconoscere. Serve a narrare. Serve a far crescere un Paese.

Ecco allora la domanda decisiva: che cosa racconta oggi una legge sull’artigianato? O meglio: che cosa potrebbe raccontare, se fosse davvero capace di cogliere ciò che l’artigianato è diventato, e soprattutto ciò che può ancora essere?

Il compito della politica non è semplicemente registrare i cambiamenti. È comprenderli, e talvolta precederli, per costruire un orizzonte condiviso. E in questo senso, il riconoscimento culturale è già azione politica. Dare dignità simbolica a un modo di lavorare, di creare, di fare impresa, significa legittimarlo. Significa rafforzare il senso di appartenenza di chi lo incarna ogni giorno, e indicarlo alle nuove generazioni come una possibilità concreta, credibile, desiderabile.

 

Una nuova legge quadro sull’artigianato deve dunque partire da un atto di visione. Deve dire ad alta voce che l’artigianato italiano non è il residuo del passato, ma la prova vivente che un’altra economia è possibile. Un’economia che ha al centro il lavoro, la qualità, la relazione con i luoghi, le persone, le storie. Un’economia che sa coniugare creatività e competenza, bellezza e utilità, innovazione e tradizione.

 

Lo ha ricordato con forza il Presidente della Repubblica: l’artigianato non è mai scomparso. È un filo continuo della nostra storia, un elemento costitutivo della nostra identità. E nella Costituzione – all’articolo 45 – è scritto che “la legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato”. Non come atto di conservazione, ma come scelta strategica. Come motore di una società plurale, democratica, coesa.

Ma oggi, a quasi quarant’anni dalla legge n. 443 del 1985, quel dettato costituzionale chiede una nuova attuazione. Perché tutto è cambiato: la società, il mercato, la tecnologia, le forme dell’impresa, le aspettative dei giovani, le sfide ambientali e sociali. Serve una legge che racconti l’artigianato del presente e ne proietti la forza nel futuro.

Serve una legge che non abbia solo valore giuridico, ma anche e soprattutto valore simbolico e operativo. Che dica chi è l’artigiano oggi. Che riconosca l’intelligenza artigiana come forma di pensiero incarnato, come sapere operativo, come capacità di trasformare materia, tempo e relazione in valore.

 

Lo abbiamo scritto più volte, anche nei documenti e negli incontri dedicati al Valore Artigiano: il lavoro manuale non è il contrario del lavoro intellettuale. È un lavoro della mente che passa per le mani. È creatività concreta, è forma di intelligenza che si plasma nella realtà. E non si contrappone all’Intelligenza Artificiale, ma può dialogare con essa, governarla, umanizzarla.

 

L’artigianato è una risposta moderna al bisogno di libertà e autenticità che tanti giovani oggi esprimono. Un’indagine realizzata dal Censis con Confartigianato lo conferma: i giovani sotto i 35 anni desiderano un lavoro libero e creativo, che consenta di esprimere sé stessi, di mettere in campo le proprie passioni, di costruire qualcosa di unico e ben fatto. L’artigianato risponde a questa aspirazione. Ma ha bisogno di un riconoscimento politico e normativo all’altezza.

Una nuova legge quadro può e deve essere questo riconoscimento. Deve dire che l’imprenditore artigiano non è solo un piccolo produttore, ma un protagonista dell’economia e della società. Deve riconoscere che l’impresa artigiana è un’impresa in transizione, capace di adattarsi, di innovare, di aggregarsi, di formare, di trasmettere saperi e che deve poter crescere rimanendo ‘artigiana’ nei valori.

Oggi i confini dell’artigianato si sono fatti più porosi: esistono mestieri che si trasformano, si ibridano, si evolvono. Il digitale ha cambiato il modo di produrre, ma non ha tolto valore al lavoro delle mani. Ha anzi rilanciato l’unicità, la qualità, la narrazione del prodotto. Le reti, le forme societarie innovative, le piattaforme web, la sharing economy sono strumenti nuovi che l’artigianato ha saputo adottare con intelligenza e creatività.

Eppure, la normativa vigente fatica a riconoscere tutto questo. I parametri della legge attuale – pensati per un’economia di prossimità – mostrano oggi rigidità e inadeguatezza. Servono criteri nuovi, che sappiano tenere insieme la concretezza e l’identità. Che non si limitino a descrivere dimensioni e forme giuridiche, ma colgano il senso profondo dell’essere artigiano oggi.

Occorre ripensare la definizione legislativa di artigianato partendo dalla figura dell’imprenditore artigiano. Non solo come detentore di un’attività economica, ma come portatore di valori: responsabilità, competenza, autonomia, capacità generativa. Un’identità fondata su ciò che si è, prima ancora che su ciò che si fa.

Questa nuova definizione deve includere anche la dimensione formativa dell’artigianato. Perché ogni bottega è anche una scuola. Perché la trasmissione intergenerazionale dei saperi è parte integrante del valore economico e sociale del settore. Una legge moderna deve valorizzare l’apprendistato, incentivare la creazione di laboratori didattici, sostenere la funzione educativa dell’impresa artigiana.

Una legge, insomma, che riconosca il ruolo dell’artigianato non solo nell’economia, ma nella costruzione di comunità coese, di territori vitali, di una società più umana. Una legge che riconosca nel lavoro artigiano una forza civica, una funzione culturale, una risorsa strategica.

 

Non si tratta di difendere un passato idealizzato, né di proteggere rendite di posizione. Si tratta di immaginare il futuro con coraggio. E di scriverlo insieme a chi lo costruisce ogni giorno, con le mani e con la testa, con passione e con intelligenza.

 

Una nuova legge quadro sull’artigianato non è un atto tecnico. È un atto poetico e politico. È un racconto collettivo, che dà voce a un’Italia che esiste, resiste e innova. Un’Italia che non ha paura della modernità, perché sa che le sue radici sono vive. Un’Italia che crede che fare bene le cose sia ancora un valore.

Per questo oggi serve una legge che narra. Perché il riconoscimento culturale non è solo un dovere: è già, in sé, azione politica.

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