Apparentemente offuscato dall’emergere di criticità e problematiche nuove, di magnitudine e urgenza straordinari il tema della transizione digitale delle imprese artigiane è tutt’altro che superato. Anzi, la velocità e violenza dei cambiamenti ai quali le società e le imprese sono sottoposte domandano ancora più capacità di fornire risposte rapide e anche radicalmente innovative in termini di servizi, prodotti e modelli di business, capacità che necessitano di competenze e pensiero digitali.
Competenze e pensiero che in questi anni si sono evoluti, in parallelo con i cambiamenti delle tecnologie, e ancora di più della relazione fra il mondo digitale e le imprese artigiane. Questa evoluzione, ormai più che decennale, ha conosciuto almeno tre macro-fasi distinte, diverse per narrazione, riferimenti e priorità strategiche.
La prima fase è stata quella dell’attenzione un po’ scettica e non priva di timori sulle conseguenze che le tecnologie digitali avrebbero avuto sul saper fare artigiano e la sua proposizione di valore. È stata la fase dei maker come nuovi artigiani, che insieme alla start up avrebbero sostituito il tessuto di micro e piccole imprese esistenti, considerate un retaggio del passato. Tra il 2012 (legge sulle start up innovative) e il 2016 (Piano Industria 4.0) il lavoro sul digitale nelle micro e piccole imprese artigiane è stato un lavoro di avanguardia, fondamentalmente dedicato a fugare timori e a superare diffidenze e scetticismi.
Lo sviluppo, con il contributo di Confartigianato all’interno della cabina di regia del MISE, del cosiddetto Piano Calenda (Industria, poi Impresa, poi Transizione 4.0) nel 2016 ha rappresentato un cambio di fase molto rilevante. Per la prima volta, una politica per l’innovazione veniva almeno nelle intenzioni progettata per garantire l’accesso anche delle micro e piccole imprese, all’interno di una visione del futuro della manifattura (che tornava ad essere un tema), nel quale l’integrazione e l’innovazione dei processi produttivi aprivano nuove opportunità. Non si trattava più di perseguire balzane idee di sostituzione delle imprese esistenti (che per fortuna hanno resistito) con nuovi ceppi tecnologici, ma di rilanciare la capacità delle imprese italiane di dare vita a prodotti e servizi belli e intelligenti (il valore artigiano), amplificando questa capacità con le tecnologie. Anche il mondo maker e delle start up, nell’ambito di un ridimensionamento delle aspettative a quote più realistiche, trovava nel supporto alla transizione digitale e sostenibile del nostro sistema produttivo un fondamentale obiettivo e una opportunità. Questa fase non è stata di timore, ma di orgogliosa rivendicazione del “si può fare”, simboleggiato da centinaia di imprese eccellenti che, in ogni settore e in ogni territorio, dimostravano che la sfida del digitale era alla portata.
Questa fase di orgogliosa rivendicazione del ruolo delle imprese artigiane nella transizione digitale si è conclusa con la pandemia, anche se già da prima era possibile identificare un problema crescente: i numerosi casi di successo faticavano a produrre fenomeni imitativi numericamente consistenti.
Era chiaro che era possibile trasformare digitalmente ogni impresa (ovviamente secondo gli orizzonti tecnologici di quel dato settore), ma era tremendamente difficile passare alla pratica.
Si affacciava il tema, oggi centrale, delle competenze digitali: le buone pratiche possedevano competenze che le altre imprese non avevano e che era difficilissimo reperire sul mercato o creare. Difficile e urgente, poiché la pandemia aveva accelerato senza precedenti la domanda di soluzioni digitali, e gli avvenimenti successivi hanno chiuso mercati, interrotto approvvigionamenti, reso un ripensamento del cosa e come produrre inderogabile.
Ecco dunque che oggi si pone con necessità un nuovo cambio di approccio, che lavori innanzitutto al tema dell’inclusività come vitale per sostenere il nostro sistema delle imprese a fronte dei continui e violenti scossoni.
Bisogna ripensare ai processi di transizione digitale (e in prospettiva molto ravvicinata anche di transizione ecologica) e immaginare modalità creative e inclusive di fare partecipare le micro e piccole imprese e gli artigiani. Recuperando lo spirito maker, sarà necessario lavorare sull’apertura dei confini delle aziende e su processi produttivi più aperti e condivisi. Bisogna inserire il digitale e il green all’interno dei processi più complessivi di trasformazione dei settori produttivi, che rappresentano la cornice di senso perché le imprese comprendano la sfida e si mobilitino di conseguenza. Bisogna affrontare il tema, globale, delle competenze, liberando anche energie oggi non adeguatamente valorizzate, come quelle delle scuole professionali e degli ITS.
Dopo la diffidenza e la scoperta, siamo entrati nella fase più complessa e affascinante del lavoro di accompagnamento delle MPMI e degli artigiani verso la trasformazione digitale: quella della messa a terra in un contesto molto difficile. Le energie e gli entusiasmi non mancano, come non mancano le competenze di una rete nazionale di Digital Innovation Hub che quotidianamente affianca le imprese nelle loro esigenze di innovazione.
Siamo al lavoro.
Foto di Cottonbro da Pexels
Paolo Manfredi
Milanese, 50 anni. È consulente per la Trasformazione digitale, ideatore e responsabile del progetto Artibici e responsabile del Progetto speciale PNRR di Confartigianato Imprese. Ha studiato Storia contemporanea. Scrive di innovazione, politica e ristoranti. È autore di “L’economia del su misura. Artigiani, innovazione, digitale” (2016), “Provincia non Periferia. Innovare le diversità italiane” (2016) e di “L’eccellenza non basta. L’economia paziente che serve all’Italia” (2023). Da settembre 2019 cura il blog “Grimpeur. Scalare la montagna dell’innovazione inclusiva” sulla pagina web di Nòva del Sole 24 Ore.