Alla fine siamo arrivati al fondo del barile ma continuiamo a raschiare sempre più in fondo eppure da anni si scrive del fallimento di un modello socioculturale che ci ha portato nel caos. Le classi dirigenti sono ingabbiate in un pensiero unico che le stordisce e le priva della creatività e dell’emotività sociale e umana necessarie per affrontare crescenti disordine e disuguaglianza.
Nella lunga storia dell’uomo tutte le società sono saltate solo per due motivi: la guerra e la disuguaglianza; il diciannovesimo secolo è stato il segnale della discontinuità storica con i richiami alla libertà, all’uguaglianza e alla felicità. Nel 1948 sono stati scritti sul sangue di due guerre mondiali i diritti fondamentali dell’uomo in occasione della costituzione delle Nazioni Unite come pietre miliari da non dimenticare mai ora però tutti quei diritti sono volati via.
Il Covid non è la causa del dramma quotidiano ma solo l’effetto e ha messo in luce anni di dissennata politica di spesa corrente usata solo come strumento di raccolta di consenso politico a scapito della sanità, della scuola, delle infrastrutture, del sistema di welfare, della ricerca di un bene comune troppo spesso invocato solo come una foglia di fico da parte di una classe politica completamente staccata dalla realtà e troppo intenta al mantenimento della sua sopravvivenza.
A fronte di una rivoluzione finanziaria che ha eretto la finanza a verità incontrovertibile, la gente è stata indotta a credere nell’abbondanza infinita e al consumo a debito; si è creata a livello globale una concentrazione di ricchezza nelle mani di pochissimi che non ha precedenti nell’intera storia dell’uomo
Tutto ciò grazie alla collusione tra finanza, politica e accademia che ha consentito di spacciare come pietra filosofale una finanza totalmente priva di fondamento scientifico e reale, inondando il mondo di prodotti tossici come i derivati, di cui nessuno capiva nulla perché tutto era mascherato dai media controllati dagli interessi di pochi e da una politica sotto scacco e suddita della finanza. Così intrappolati dal pifferaio magico ci siamo avviati, come i lemming, verso il dirupo dimenticando che si guadagna per vivere e non il contrario perché la vita diventa un mezzo e non più un fine. La finanza sostenuta dai media è asimmetrica all’economia reale, l’unica che genera vera ricchezza; il distacco nel 1971 dall’oro e dal riferimento a un bene reale ha dematerializzato la ricchezza che oggi è solo un numero che cambia in continuazione frutto di una speculazione infinita. Questa sirena, alimentata dal suicida mantra del «creare valore per gli azionisti» ha incantato tutti a danno della nostra storia cancellando aziende per correre dietro a una delocalizzazione selvaggia ed ai paradisi fiscali che hanno cancellato posti di lavoro e parte di quella attività manifatturiera che ci aveva portato tra i paesi a elevata ricchezza.
Il ritorno all’economia reale
Ritornare all’economia reale ed all’uomo è la frontiera culturale che dobbiamo affrontare per combattere una povertà crescente e una disuguaglianza inaccettabili; il passaggio non è facile perché i problemi sono sempre problemi di uomini; certamente l’esclusivo ricorso a una sterile cultura giuridica espressa da una marziana burocrazia diventa una soffocante garrota e va disinnescata. L’effetto di questa cultura sui sistemi di controllo è devastante, la forma diventa sostanza e nessuno controlla. La povertà si combatte creando lavoro e non dando sussidi ma questo non è nella cultura della classe dirigente attuale, parlare di patrimoniale è una dissennatezza perché c’è già e si chiama Imu che diventa strangolante; le imprese non possono più sottostare alla garrota della distribuzione dei dividendi a tutti i costi che le impoverisce in una logica del breve periodo, ma l’economia reale opera nel lungo periodo; si deve ripensare in una logica di collaborazione perché solo l’arricchimento del capitale sociale può garantire quello economico.
Il libro di Quelet ricorda che c’è un tempo per tutte le cose: «Tutto ha il suo momento e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo»; Sant’Ambrogio citando il libro scriveva: «I semi si aprono nella loro stagione, gli animali partoriscono nella loro stagione… infatti c’è sempre un tempo per partorire ed un tempo per morire… C’è un tempo per guadagnare e un tempo per restituire, un tempo per conservare e un tempo per gettare via». Proviamoci.
(NdR. Il professore Pezzani ha approfondito questi temi nel corso di un webinar organizzato da Confartigianato nell’ambito della rassegna ‘A colloquio con…’. Clicca qui per rivederlo)
Foto di Pixabay
Fabrizio Pezzani
(Parma, 1948) Nel 1973 si laurea in economia e commercio. Intraprende fin da subito la carriera accademica e nel 1985 è visiting professor alla Harvard Business School. Lavora come docente presso alcuni atenei del Bel Paese, insegnando ragioneria generale e applicata e programmazione e controllo nelle amministrazioni pubbliche. Nel 1995 inizia a collaborare con l'Università Bocconi di Milano, prima come direttore della divisione Amministrazioni pubbliche e sanità, e poi, come direttore del corso in economia delle amministrazioni pubbliche e istituzioni internazionali. Dal 2017 insegna come professore senior. Attualmente è membro della commissione sui princìpi contabili delle amministrazioni pubbliche presso il ministero dell'Interno e di altri comitati di elevato interesse scientifico