Negli ultimi mesi il dibattito pubblico si è molto focalizzato sulla questione demografica. Il problema è noto da tempo, ma oggi gli indicatori sono diventati talmente preoccupanti da rendere impossibile tacerli. L’immagine di “inverno demografico” restituisce però solo in parte le dinamiche involutive della popolazione italiana. Come è stato correttamente sottolineato, l’inverno fa parte di un ciclo vitale a cui fa seguito la primavera, mentre la situazione italiana rimanda a una dinamica involutiva, più simile a una “glaciazione demografica”. Il numero dei giovani continua, infatti, a calare sia in percentuale che in numeri assoluti e le previsioni per il futuro non sono rosee: gli studi indicano che nel 2030, al netto dei flussi migratori, i giovani tra i 20 e i 34 anni saranno 580.000 in meno rispetto ad oggi.
Bene, dunque, parlare di demografia ma con la consapevolezza che, quando lo si fa, si prenda atto che stiamo parlando dei giovani, delle loro difficili condizioni di crescita e, indirettamente, ma non secondariamente, di cosa potrebbe servire per invertire la rotta e aiutarli a pensare nuovamente all’Italia come un luogo in cui investire tempo, intelligenza e capacità. In cui costruire legami durevoli, di famiglia e di territorio. In cui immaginare di mettere al mondo dei figli. Dei giovani, purtroppo, in Italia si parla ancora troppo poco e, quando lo si fa, difficilmente seguono azioni trasformative dell’esistente.
Contrastare le tendenze demografiche significa, invece, rimettere al centro dell’agenda del Paese le giovani generazioni ed impostare politiche che siano rivolte prioritariamente e coerentemente alle nuove generazioni. Perché è solo ripartendo da loro, con decisione, che il Paese potrà darsi un futuro
Il confronto tra posizionamento dell’Italia e quello degli altri Paesi europei mette in evidenza una serie di oggettivi svantaggi. Sono pochi gli indicatori che vedono l’Italia in posizione di avanguardia. Tra le rare note positive, vanno segnalate una certa propensione all’autoimprenditorialità (anche se, purtroppo, frustrata da fattori strutturali) e, con maggiore evidenza, la minore esposizione nei confronti di alcune delle patologie che colpiscono con più frequenza i ragazzi europei. Si tratta, quest’ultimo, di un dato non privo di interesse che sembra segnalarci, da un lato, una tenuta dei contesti sociali di riferimento, e, dall’altro, la persistenza di risorse giovanili che potrebbero essere mobilitate e attivate costruttivamente.
La positività di queste due note non appare però sufficiente a modificare il giudizio complessivo:
l’Italia resta un Paese bloccato nei suoi dinamismi e in ritardo rispetto a processi di modernizzazione che altrove hanno già dimostrato di funzionare, generando impatti positivi a livello demografico, economico e sociale per le generazioni presenti e aprendo nuove opportunità per quelle future
Quando si parla di giovani si parla di lavoro. A questo riguardo i dati sono particolarmente preoccupanti. Innanzitutto, il nostro Paese si colloca al penultimo posto per quota di giovani occupati a tre anni di distanza dal conseguimento del titolo di studio, e ciò vale tanto per i laureati quanto per i diplomati. Relativamente al numero di NEET – giovani che non studiano, non sono in formazione e non lavorano – l’Italia è al secondo posto in Europa, con punte particolarmente significative al Sud. Come in Sicilia, dove oltre il 40% delle giovani donne e il 35% dei giovani uomini non risulta inserito né in percorsi formativi, né professionali. Anche in tema di disoccupazione giovanile il nostro Paese si trova nella parte più bassa del ranking. Rilevante è poi anche la questione salariale, che in Italia registra ormai da molti anni una crescita molto inferiore a quella dei principali partner, con uno schiacciamento delle retribuzioni medie rispetto ad altri contesti europei, difficoltà di stabilizzazione dei contratti e diffusione del part-time involontario. Tutte dinamiche che incidono in modo particolare sui giovani che finiscono per rimanere bloccati nella trappola di una marginalità peraltro non sempre avvertita come problematica per la capacità contenitiva e di supporto dei contesti locali e famigliari. Le poche note favorevoli sono lo sviluppo dell’economia circolare e una certa propensione per il lavoro autonomo rispetto a quello dipendente dei giovani italiani. Un dato, peraltro, ridimensionato dagli indicatori sull’intenzione ed effettiva attivazione imprenditoriale che riconfermano ormai da anni per il nostro Paese un tendenziale basso dinamismo.
Questi dati vanno inseriti in uno scenario in grande trasformazione che vede i giovani italiani orientarsi nel mondo del lavoro sulla base di nuovi criteri che vanno presi in considerazione nel ripensare la transizione scuola-lavoro e, più ampiamente, la relazione giovani-lavoro.
Ad esempio, nella ricerca di una occupazione, quasi l’80% dei rispondenti considera in qualche misura importante l’impegno sociale delle imprese
Rispetto ai loro coetanei europei, i giovani italiani appaiono più inclini a considerare l’impresa come un attore sempre più responsabile sia sul piano sociale che ambientale. Si tratta di un cambiamento significativo che investe l’idea di cosa sia oggi “valore” (cioè, ciò che vale, che conta) e di come sia possibile crearlo senza pregiudicare il futuro per le generazioni presenti e future. Parliamo di un nuovo mind-set che, criticamente, persegue il definitivo superamento di modelli produttivi estrattivi a favore di approcci ecosostenibili e dunque di più lungo periodo. È attorno a questa ricerca – che ricombina la custodia delle radici italiane con l’innovazione – che è oggi possibile intercettare alcune tra le esperienze più promettenti a livello di intrapresa giovanile, nel capo del turismo responsabile o dell’agricoltura multifunzionale e sostenibile.
La conclusione è che esiste in questo momento una sconnessione tra la condizione giovanile – bloccata e infragilita ma al tempo stesso portatrice di istanze profonde di cambiamento – e il paese nel suo insieme – sclerotizzato e timoroso di guardare al futuro. Di fronte alle sfide impegnative del tempo che viviamo – digitalizzazione e sostenibilità – solo la ricerca di una soluzione a questa contraddizione potrà permettere all’Italia di continuare a essere protagonista del futuro. E alle nuove generazioni di continuare a immaginare e realizzare il loro avvenire.
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Foto di Saroj Gajurel
Mauro Magatti
Laureato in Discipline Economiche e Sociali all'Università Bocconi di Milano e Ph.D. in Social Sciences a Canterbury, è professore ordinario all’Università Cattolica di Milano. Sociologo, economista ed editorialista del Corriere della Sera, membro della Commissione Centrale di Beneficienza della Fondazione Cariplo, del Comitato per la Solidarietà e lo sviluppo di Banca Prossima e del Comitato Permanente della Fondazione Ambrosianeum. Dal 2008 è direttore del Centro ARC (Anthropology of Religion and Cultural Change)