L’alimentazione italiana è oggi uno dei principali pilastri dell’identità nazionale, forse il principale, considerando la concomitanza di forza simbolica interna ed esterna, contributo al PIL, varietà.
La, crescente, identificazione è tale che alcuni osservatori hanno stigmatizzato il sempre più forte attaccamento degli italiani al cibo come indice proprio di una debolezza identitaria: un paese in crisi si attacca ad un elemento materiale, peraltro oggetto di costanti e profonde revisioni ed influenze, sacralizzandolo perché non ha di meglio da venerare.
È una lettura non errata, ma un po’ ingenerosa, dacché proprio la plasticità e la varietà della nostra offerta eno-gastronomica, comprese le tradizioni in parte inventate, raccontano una vivacità, una creatività e una connessione con le culture e le comunità locali che pochissime altre cucine possono vantare, al di là degli stucchevoli purismi su piatti, come la carbonara, apparsi molto tardi sulle nostre tavole e con origini ben lontane da quelle raccontate nelle leggende di cucina.
L’Italia resta uno dei luoghi al mondo in cui si può mangiare non solo meglio, ma in modo straordinariamente vario, nonché sano e sostenibile. Si può, sottolineo, perché esiste un sistema di offerta in questo senso, varia e diffusa, totalmente basata sul lavoro artigiano, tanto nelle sue componenti più proprie (panificatori, casari, macellai, ecc.), quanto su un settore primario e della ristorazione che si concepisce artigiano per sapienza, attenzione alla qualità, valore aggiunto culturale
Come molto del lavoro artigiano, il sistema dell’eno-gastronomia italiana si basa su un impasto del tutto peculiare tra subculture locali, capacità di innovazione, saperi individuali, proiezione simbolica anche internazionale. È un equilibrio tra elementi, che integra sagre popolari e mercati contadini con chef stellati e prodotti famosi nel mondo, alimentazione quotidiana e socialità.
Purtroppo, questo equilibrio è oggi sottoposto a trasformazioni tanto rapide quanto radicali, che rischiano seriamente di alterare equilibri che devono essere difesi, non per conservatorismo, ma perché hanno nel tempo dimostrato di produrre sostenibile e diffusa qualità della vita, quella propria delle economie a solida base artigiana e di impresa diffusa.
Questi cambiamenti toccano tutti i fattori del nostro sistema del food, dalla produzione alla distribuzione, dal consumo alla cultura che lo alimenta:
- La ristorazione famigliare, come luogo di socialità e convivialità oltre che, insieme alla cucina famigliare, di socializzazione alla tavola, sta tramontando. I numeri sulle chiusure dei ristoranti sono impietosi, soprattutto ma non solo nei centri urbani. Ne sono responsabili lo scarso ricambio generazionale e la strutturale mancanza di collaboratori, ma anche una modalità diversa di mangiare fuori casa, che predilige formati più veloci o ibridi e ad esempio ha quasi completamente cancellato il pranzo.
- Il pubblico è meno socializzato al cibo, anche perché meno famiglie soprattutto in città consumano pasti strutturati e più attento alle sollecitazioni della comunicazione. Si lavora dunque su esperienze molto nette e semplificate e sui format, magari di breve durata se non raggiungono gli obiettivi di business di proprietà sempre più orientate alla finanziarizzazione e all’industrializzazione dell’attività ristorativa: si prova un formato e, se funziona, si scala fino alla catena, se non funziona si chiude e si passa ad altro.
- Insieme al cambiamento dei riti dell’alimentazione, si stanno affermando nuove tendenze di consumo che mettono in discussione la nostra cultura alimentare. Paradigmatica è da questo punto di vista la crisi, non solo italiana, del vino rosso: i consumatori ne bevono sempre meno, in favore di superalcolici, bollini o bevande analcoliche, più adatte a consumi diversi dalla classica cena, che però era anche momento di scambio e di acculturazione attraverso la cucina.
- Nell’era del km zero, la distribuzione omologa l’offerta: anche i piccoli negozi indipendenti si vanno rarefacendo, in favore della grande distribuzione organizzata, la quale predilige prodotti industrializzati, standardizzati, su larga scala e prevedibili. I prodotti di nicchia, le piccole produzioni, se non raggiungo la massa critica restano confinate alle primizie, rare e costose.
- Le piccole produzioni di qualità sono anche quelle più direttamente minacciate dai cambiamenti climatici, che minacciano alcune produzioni legate al clima temperato. Al contempo, queste mutazioni favoriscono l’introduzione di nuove varietà e di nuove coltivazioni, si pensi alla frutta tropicale, che potrebbero configurare nuove opportunità non solo di business, ma anche di esercizio della creatività che ha fatto grandi le nostre tavole.
Come sempre, i grandi cambiamenti portano con sé timori, rischi e opportunità, ma prepararsi alla gestione del cambiamento non può, in questo più che in altri campi, configurare esclusivamente una resa ai nuovi corsi. Per immaginare un futuro del food italiano in cui quello che si mangia in Italia (e come lo si mangia) continuino ad essere elementi di una proposizione di valore e di qualità della vita uniche, occorre andare oltre la retorica dell’innovazione come sempre e solo positiva e bisogna tenere in considerazioni alcuni elementi, da evolvere, ma anche da difendere, senza resa alla dittatura del mercato (soprattutto quando è così evidente che i mercati procedono a tentoni).
In primo luogo, occorre ricostruire una cultura alimentare nazionale come elemento fondante dell’identità italiana. Non è un’operazione di chiusura al mondo, né passatista: non si immagina di tornare alla cultura alimentare degli anni ’70, ma di riportare l’attenzione a quello che si mangia, arricchito dalle nuove suggestioni dell’ibridazione con altre tradizioni gastronomiche e dai temi oggi centrali della salute e della sostenibilità, nella vita quotidiana dei cittadini italiani. Venuta meno la famiglia come principale agenzia formativa del gusto, oggi questo compito spetta anche a realtà come la scuola, in cui i bambini possono e devono sperimentare varietà e qualità.
Cittadini meno distratti (e schiavi del marketing) rispetto a quello che mangiano, e fanno mangiare ai loro figli, saranno anche consumatori più esigenti, pilastro di un sistema della distribuzione (e a monte della produzione) più attento a qualità, tipicità e stagionalità e rispettoso della sostenibilità, ambientale ed economica. Uscendo, è fondamentale, dalla trappola cognitiva per cui qualunque cibo di qualità costa e dunque chi ha minori disponibilità economiche deve mangiare per forza cibo industriale, meno buono e sostenibile. Non è sempre stato così e non dovrà essere così in futuro: le politiche pubbliche e le imprese devono collaborare perché anche chi è fuori dalla campagna possa avere a disposizione prodotti di qualità, magari meno sofisticati, ma buoni, puliti e giusti, a costi sostenibili, senza cadere per forza nelle logiche della grande distribuzione, che da in termini di convenienza quello che toglie in tutti gli altri aspetti.
Si diceva della sostenibilità, oggi questione chiave.
Ebbene, una nuova cultura alimentare nazionale (e locale) non può non recuperare quella componente di attenzione al non sprecare che è architrave della cultura contadina. Interi tomi di ricette tradizionali sono composti da piatti nati dalla creatività delle nostre nonne nel recuperare tutto il recuperabile date le condizioni di indigenza e la numerosità della famiglia contadina
Si tratta di una sorta di sostenibilità naturale, peraltro concetto non nuovo al mondo artigiano, che deve essere recuperata per il potenziale che contiene anche per un futuro più green.
Questi ed altri elementi richiamano la necessità di dotarsi di una food policy italiana, una visione e una strategia, declinata per l’appunto in politiche, che sostenga una nuova e diffusa cultura alimentare. Serve ai cittadini per mangiare meglio, ma anche alle imprese per crescere a partire da un mercato interno più informato, colto e sofisticato, dunque disponibile a investire di più per mangiare meglio (sempre nell’ambito di un’attenzione maggiore alla sostenibilità economica e alla qualità anche popolare).
Artigiani, contadini e ristoratori devono essere i pilastri di questa ricostruzione di un’identità eno-gastronomica italiana che guarda a un futuro di qualità sostenibile. Sarà una delle prossime grandi sfide per l’intero Sistema Italia, che dovrà unirsi per affrontarle con impegno e visione.
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Foto di Carlos Machado
Paolo Manfredi
Milanese, 50 anni. È consulente per la Trasformazione digitale, ideatore e responsabile del progetto Artibici e responsabile del Progetto speciale PNRR di Confartigianato Imprese. Ha studiato Storia contemporanea. Scrive di innovazione, politica e ristoranti. È autore di “L’economia del su misura. Artigiani, innovazione, digitale” (2016), “Provincia non Periferia. Innovare le diversità italiane” (2016) e di “L’eccellenza non basta. L’economia paziente che serve all’Italia” (2023). Da settembre 2019 cura il blog “Grimpeur. Scalare la montagna dell’innovazione inclusiva” sulla pagina web di Nòva del Sole 24 Ore.