Marco Marchetti[1], ordinario di Pianificazione Forestale presso la Sapienza Università di Roma e direttore del Master di II livello in “Governance e sostenibilità per le montagne italiane” all’Università del Molise, è una delle voci più autorevoli nel campo della gestione sostenibile delle risorse montane. In questa intervista con Spirito Artigiano, Marchetti analizza le complesse sfide che le comunità montane italiane devono affrontare, tra crisi climatica, spopolamento e declino della biodiversità. 

 

La crisi climatica, demografica e il declino della biodiversità ci impongono di cambiare paradigmi. Quale modello di governance è oggi più adatto e necessario per le comunità di montagna?

«Abbiamo una sommatoria di crisi che si sovrappongono nella montagna italiana, dove lo spopolamento si somma al problema significativo della crisi ecologica, creando un’unica crisi socio-ecologica. La crisi climatica, legata all’aumento delle emissioni climalteranti, è accompagnata anche nelle nostre montagne dal declino della biodiversità. Siamo all’interno dell’hotspot climatico del Mediterraneo. Le montagne italiane, avendo anche quote elevate, fungono da vere e proprie sentinelle del cambiamento climatico. E ricordiamoci che, a causa della complicata e splendida varietà del nostro paese, non abbiamo a che fare con una sola montagna, ma con molte montagne diverse.

Proprio per adattarci a questa diversità, dobbiamo proporre un modello di governance capace di rispondere alle due crisi, mantenendo una forte componente identitaria sociale, in grado di rispondere con i saperi tradizionali che ci sono, ma innovando, nel solco della tradizione, rispetto alla gestione del territorio. Il territorio montano è infatti profondamente cambiato anche perché l’abbandono l’ha trasformato da mosaico eterogeneo, dal punto di vista ambientale e paesaggistico, in un territorio fortemente polarizzato tra l’avanzamento del bosco da una parte e la sparizione degli spazi rurali, e con essi delle relative filiere, dall’altra.

Per questo occorre ripensare le filiere produttive, innovando nelle due componenti sociale ed economica rispetto a quelle ecologico-ambientali. Quindi, è necessaria una governance locale, ma il più possibile associata e capace di cooperazione, perché da soli non si va da nessuna parte, né imprese né amministrazioni locali. Occorre anche la capacità di interloquire con i poteri centrali per chiedere non solo fondi e assistenza, ma soprattutto visione e servizi. Quello che è mancato negli ultimi decenni alle nostre montagne e che ha innescato il circolo vizioso dello spopolamento è stata l’assenza di servizi adeguati alle esigenze dell’economia e della vita sociale di oggi».

 

Le montagne sono state definite le prime sentinelle nella lotta al cambiamento climatico. In che modo una gestione oculata delle risorse montane può essere un deterrente al cambiamento climatico?

«Il cambiamento climatico è un fenomeno globale e ormai certo, legato alle emissioni antropogeniche, e sta andando più velocemente di quanto gli scienziati avessero previsto nei decenni passati. Perciò, più che parlare di deterrenti, dobbiamo essere in grado di parlare di prevenzione dei possibili disturbi legati alla crisi. Dobbiamo quindi fare una forte azione di analisi delle vulnerabilità e dei rischi, per esempio sugli effetti dei disturbi climatici come l’inaridimento, che si manifesta con le siccità, la deglaciazione – un fenomeno terribile e inesorabile, che condiziona la risorsa acqua, fondamentale per il paese e non solo nelle zone di montagna, ma anche per le pianure e le città – e altri disturbi come tempeste e alluvioni, che sono in aumento. Occorre, quindi, essere capaci di mettere in atto una gestione oculata del territorio e delle sue risorse naturali, con interventi di prevenzione. Questo significa più cura, più “custodia”, come espresso nell’Enciclica *Laudato Si’* di Papa Francesco, più che nei documenti politico-programmatici, ma efficacemente previsto nella Strategia Forestale Nazionale.

Dobbiamo inoltre essere capaci di rivalutare la capacità che le nostre comunità hanno avuto nel passato di modificare “sistematicamente e coscientemente” (per dirla con Emilio Sereni) il territorio, in modo adeguato alle difficoltà delle zone di montagna, riprendendo quei saperi che ben conosciamo, patrimonio delle popolazioni. E questo va fatto prima che questi saperi si perdano, perché non abbiamo una finestra temporale lunga. Non possiamo aspettare. L’urgenza è infatti un altro tema fondamentale: non abbiamo tanto tempo. Tra 10, 20, 30 anni avremo ancora generazioni in grado di agire e di trasmettere sapere alle nuove generazioni e popolazioni?

Questa è un’urgenza per la politica e per tutte le istituzioni e amministrazioni che devono fare governance. Si tratta di un tema non rimandabile, proprio perché potremmo trovarci con la sparizione della cultura e del sapere della montagna, che sono la cosa più importante da preservare e tramandare».

 

L’ultima domanda è relativa alla filiera boschiva e alla lavorazione del legno. Oggi stiamo assistendo a narrazioni non sempre corrette, a volte un po’ semplicistiche, riguardo al taglio degli alberi e al piantarne di nuovi. Quale può essere una gestione equilibrata nella nostra selvicoltura?

«Come accennato, l’abbandono degli spazi rurali, soprattutto in montagna, è iniziato ormai da cinquant’anni, e questo ha fatto aumentare enormemente la quantità di alberi, nel senso che la superficie boschiva si è allargata, quasi raddoppiata in 70 anni. La natura fa il suo corso e riprende gli spazi che nei secoli e nei millenni precedenti le erano stati sottratti, facendo aumentare il bosco sia in superficie che in provvigione legnosa, cioè la quantità di biomassa vegetale che abbiamo su ogni ettaro.

E questo vuol dire anche un aumento della quantità di legno, che può essere una risorsa. Qui bisogna avere due tipi di sguardo. Il primo è globale. Sappiamo che la crisi socio-ecologica e la crisi climatica sono di dimensioni planetarie e sappiamo che alcuni biomi, alcuni grandi ecosistemi, sono fragilissimi e molto minacciati (pensiamo alle foreste tropicali). Far ripartire un’economia come la nostra, italiana – che è una economia manifatturiera di piccole imprese capaci di grandissima innovazione e qualità – utilizzando materie autoctone come il legno, invece che importarle da paesi tropicali o da paesi boreali, può essere un primo importantissimo aspetto che ha risvolti anche etici, oltre che ecologici e socio-economici per i nostri territori.

Quindi, occorre rimettere in piedi le filiere forestali, non con l’ottica della rapina o dello sfruttamento, ma con l’ottica dell’uso sostenibile. Questo ormai sappiamo come farlo. Le esperienze del passato ci permettono di sapere cosa prelevare, in che tempi, in che quantità, con quali tecniche (il che vuol dire anche sicurezza del lavoro e miglioramento tecnologico) per garantire una filiera foresta-legno che ricominci a fare selvicoltura. Negli ultimi decenni, come abbiamo abbandonato l’agricoltura e la zootecnia, abbiamo anche abbandonato la selvicoltura. Siamo andati a raccogliere legno per usi molto semplificati, come la bioenergia (la legna da ardere), dimenticando invece gli avanzamenti che le nostre stesse industrie stanno facendo in campo tecnologico. Abbiamo portato nel mondo capacità tecnologiche avanzatissime, però fatte con legno altrui, proveniente da altri territori magari ancora più fragili socialmente ed ecologicamente. Una gestione equilibrata permette invece di decidere dove è possibile ed utile aumentare in modo calibrato il prelievo delle nostre risorse legnose autoctone.

Dobbiamo fare tesoro della nostra esperienza e delle capacità delle nostre imprese, che sanno stare al passo con i tempi e trovare nuove modalità di utilizzazione delle risorse forestali, come ad esempio quella bioenergetica sostenibile, le  filiere del legno ingegnerizzato di tipo nuovo, la filiera del legno strutturale – in particolare la bioedilizia – che per la rigenerazione urbana, la ricostruzione di ambiti difficili, come nelle aree terremotate, possono essere una risorsa immensa dal punto di vista economico e anche sociale.

Sappiamo quanto possiamo prelevare, dove possiamo prelevarlo e dove invece abbiamo bisogno di garantire una gestione che sia più conservativa anche per motivi di biodiversità o di protezione del suolo, protezione dall’erosione, protezione dell’acqua e dall’acqua. Tutto sta a fare un po’ di pianificazione condivisa con gli enti locali e le comunità e avere una visione ampia, che fortunatamente la Strategia Forestale Nazionale dal 2022, e con uno sguardo sui prossimi vent’anni, ha già messo a punto in maniera assolutamente unanime rispetto a tutti i portatori di interesse del nostro paese, prime fra tutte le regioni, che esercitano la competenza primaria in materia. Abbiamo lo strumento per farlo. Si tratta di metterlo in pratica».

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[1] Ordinario di pianificazione forestale presso Sapienza Università di Roma e Direttore del Master di II livello in “Governance e sostenibilità per le montagne italiane” all’Università del Molise. Presidente della Fondazione Alberitalia e già Chair del Board di EFI – European Forest Institute, e Presidente di SISEF – Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale.