Se dico “plastica”, cosa ci viene in mente? Ovvio: è l’icona dell’inquinamento degli oceani. Ma c’è stato un tempo, non molto remoto, in cui quella parola aveva tutt’altro significato. Pensiamo al valore altamente simbolico dell’ingresso degli elettrodomestici e degli utensili in plastica nelle case della classe media italiana: significava l’affrancamento dalla scarsità e dall’arretratezza, l’accesso a pieno titolo nella società affluente e opulenta. Infatti, in quel periodo, il nostro Paese poteva vantare indiscussi primati a livello mondiale nell’industria chimica e delle materie plastiche. Oggi, invece, in attesa di un vagheggiato mondo plastic-free, si legifera per ridurre quanto più possibile l’impiego della plastica e l’impatto ambientale: sacchetti per la spesa biodegradabili, bottigliette dell’acqua minerale più leggere, con il tappo che non si stacca dal collo del flacone. È un rovesciamento simbolico e valoriale di cui sono artefici soprattutto le giovani generazioni, ma non solo. Si tratta di un capovolgimento di prospettiva che testimonia quanto siano cambiati l’immaginario collettivo e l’agenda sociale.

Qualcosa di analogo è avvenuto anche nel rapporto degli italiani con il lavoro. Il mercato del lavoro sta vivendo una fase eccezionale sotto molti punti di vista, per certi versi inedita, come confermano le difficoltà sperimentate giornalmente da molte imprese nel reperire la manodopera e le figure professionali di cui hanno bisogno. È uno scenario originale, innanzitutto, sul piano quantitativo: più di 24 milioni di occupati, un record nelle serie storiche delle forze di lavoro. Ma anche sul piano qualitativo, se si considerano le nuove attitudini individuali maturate nei confronti del lavoro.

Il grande cambiamento è stato generato da una molteplicità di fenomeni strutturali di lungo periodo, accelerati e amplificati dalle dinamiche congiunturali. Da una parte, la regressione demografica, con il calo costante e prolungato della natalità e il graduale invecchiamento della popolazione; dall’altra, il mutato rapporto soggettivo con il lavoro. Questi sono i fattori principali che hanno determinato il nuovo contesto, imponendo ai diversi attori di ripensare radicalmente le proprie strategie operative.

 

In particolare, i giovani – che sono pochi e saranno sempre di meno in futuro – oggi hanno il coltello dalla parte del manico. Proprio nel loro rapporto con il lavoro sta emergendo una forte discontinuità rispetto alle generazioni precedenti.

 

Per loro, il lavoro non è più il baricentro esclusivo delle proprie agende personali, a prescindere dalla qualità del lavoro e dai frutti che ne conseguono. No: per loro il lavoro deve essere motivante e ricco di senso. Altrimenti, tanto vale ridurre al minimo l’impegno da dedicare all’impiego. Non è prevalente né un rifiuto del lavoro tout court, né una rassegnata accettazione di un lavoro qualunque. Al contrario, emerge la ricerca di un buon lavoro, che sia appagante non solo sul piano economico, ma anche nella sfera esistenziale. È questo il nuovo orizzonte valoriale da considerare per riconoscere nell’impresa artigiana e nel lavoro artigiano quei fattori che oggi possono fare breccia nell’immaginario giovanile, poiché capaci di rispondere alle nuove aspettative soggettive.

Certamente, per i giovani un buon lavoro deve poggiare su alcuni “fondamentali” solidi: stabilità dell’impiego, un livello retributivo adeguato, un orario di lavoro soddisfacente, in modo da non sacrificare le altre dimensioni della vita che contano (gli affetti, gli impegni familiari, gli interessi personali, lo svago). Inoltre, deve svolgersi in un contesto (dal luogo di lavoro alla rete relazionale) percepito come positivo e rappresentare un’occasione di apprendimento continuo. Deve anche essere coinvolgente, non routinario, aperto alle innovazioni e al contributo creativo, e incorporare convinzioni e passioni consonanti con le proprie.

In particolare, tra i requisiti del buon lavoro che i giovani cercano, emerge prepotentemente la voglia di autonomia nella gestione dei tempi e degli orari. Questi desideri potrebbero orientare verso il lavoro autonomo e l’avvio di un’impresa, una soluzione largamente apprezzata, sebbene spesso confinata nel perimetro di un sogno proibito, a causa dei rischi connessi all’avventura imprenditoriale, percepiti come troppo alti per essere sopportabili.

 

Molti dei pilastri del lavoro ideale indicati dai giovani sono rintracciabili nel lavoro artigiano, che gode di una reputazione molto positiva nel loro immaginario, tanto che un terzo dei giovani che non vi lavorano vorrebbe entrare a farne parte.

 

Del mondo artigiano si apprezzano l’originalità, la creatività, la vena artistica, il grado di autonomia nella gestione delle mansioni e nella realizzazione del prodotto o servizio finale. Tuttavia, lo sguardo giovanile rivolto all’artigianato non è contraddistinto da un’inclinazione nostalgica o da una romantica idealizzazione della “piccola bottega”. Piuttosto, ciò che rende l’artigianato attrattivo ai loro occhi sono i suoi valori intrinseci, coniugati con le esigenze della contemporaneità in cui sono immersi: competenze e saperi, culture e pratiche legate al modello produttivo specifico del mondo artigiano.

Se, nell’attuale fase storico-sociale, il lavoro deve rispondere al severo scrutinio valoriale compiuto dai giovani, allora non è una forzatura affermare che l’impresa artigiana può contare su una posizione di vantaggio rispetto ad altre alternative meno sensibili alla sostenibilità e contraddistinte da un produttivismo “a prescindere”.

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