Recentemente, Susanna Tamaro ha affermato in un’intervista: “Boom di studenti con DSA? Può essere causato da troppo cellulare e PC. Ormai i bambini di oggi non sanno fare nemmeno più capriole.”[1] È chiaramente una provocazione. I disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) hanno origini complesse, e ridurli all’uso della tecnologia è una semplificazione eccessiva. Tuttavia, questa affermazione offre uno spunto per riflettere sul nostro rapporto con la tecnologia avanzata, in particolare con l’Intelligenza Artificiale (IA).

Il rapporto tra uomo e tecnologia, infatti, può diventare conflittuale. Senza un equilibrio, rischiamo che l’elemento umano venga “inghiottito” dal progresso tecnologico, portando a un progressivo affievolimento delle nostre abilità. L’IA elabora e produce contenuti a una velocità inimmaginabile per noi. Ma come possiamo trasformare questo rapporto, da potenzialmente conflittuale a fecondo?

La risposta (a nostro avviso) risiede nel recupero della manualità, in un ritorno al “saper fare”. In Italia, tendiamo a separare nettamente il lavoro manuale da quello intellettuale, quasi come se il primo non avesse un valore cognitivo. Questa distinzione riduce il valore della manualità, relegandola a un livello inferiore. Eppure, già negli anni ’30, lo psicologo Lev Vygotskij ci insegnava che la manualità non è solo abilità fisica, ma anche azione orientata dall’intelletto. Lavorare con le mani significa progettare, risolvere problemi e creare: insomma, non esiste un lavoro “solo manuale” o “solo intellettuale”, ma un lavoro sempre pensato e intelligente. Esiste il lavoro: punto.

Considerare l’abilità manuale come azione dettata dal raziocinio significa restituirle la dignità intellettuale che merita. Come ha recentemente evidenziato Alessandro D’Avenia[2], il nostro “salto evolutivo” risiede nel pollice opponibile, simbolo di manualità e invenzione. Con le mani abbiamo acceso fuochi, costruito rifugi, curato ferite. Pensare e fare sono intrecciati in modo indissolubile.

Nel suo lavoro L’Uomo Artigiano, Richard Sennett[3] sottolinea potentemente come l’abilità manuale e l’attenzione al dettaglio rafforzino il legame tra il fare e il pensare, mostrando come questo processo creativo sia essenziale per lo sviluppo personale e per una società più appagante.

In questa visione, la manualità diventa il fattore umano per eccellenza, un’arma potente per rendere il rapporto con la tecnologia, e in particolare con l’IA, un alleato anziché una minaccia. Senza questa forza intelligente, l’essere umano rischia di perdere la propria umanità, diventando schiavo della tecnologia. È proprio nel recupero di una “manualità intelligente”, quella che possiamo chiamare “Intelligenza Artigiana”, che troviamo la chiave per trasformare un potenziale conflitto in una sinergia feconda.

Anche (e soprattutto) come esercizio pedagogico, la manualità riveste un ruolo essenziale per le nuove generazioni e andrebbe socializzata nelle scuole di ogni ordine e grado. Scrivere a mano, ad esempio, è un’attività che bilancia l’eccesso digitale. Ho un esempio personale: mio nipote di 16 mesi è già attratto dallo smartphone, e questo mi fa riflettere su quanto sia importante insegnare ai bambini il valore del fare manuale. Non per indirizzarli necessariamente verso un ambito tecnico-professionale, ma per dare loro un antidoto che li renda liberi di usare la tecnologia senza diventarne dipendenti.

 

La manualità, nelle scuole, dovrebbe essere valorizzata come forza educativa e come mezzo per acquisire consapevolezza della nostra umanità. Immaginiamo più maestri artigiani nelle scuole (di ogni ordine e grado): non per formare tutti come futuri artigiani, ovviamente, ma per coltivare (lo ripetiamo con forza) quella sensibilità manuale che rappresenta un antidoto all’eventuale scontro con la tecnologia. Socializzare l’Intelligenza Artigiana significa educare alla consapevolezza del “fare” come strumento di crescita e libertà, integrando il pensiero manuale in ogni fase del percorso educativo.

 

Come ha suggerito D’Avenia, nelle scuole accanto all’Intelligenza Artificiale servirebbe un’altrettanta “Intelligenza Artigianale”: esercitare la manualità per contrastare la facilità ingannevole degli schermi, simili all’isola di Calipso, dove tutto è immediato e senza sforzo.

Persino i social media, mezzi di comunicazione odierni per eccellenza per le nuove generazioni, celebrano la potenza creativa e attrattiva della manualità. Su TikTok e Facebook, video virali mostrano mani che creano, riparano, modellano. È come se, nel profondo, stessimo riscoprendo il valore del fare artigiano, un messaggio che arriva forte alle nuove generazioni: ciò che conta non è solo il prodotto finito, ma il percorso, l’ingegno e la cura.

Questo percorso rappresenta l’essenza della nostra visione: la manualità intelligente, quella “Intelligenza Artigiana” che ci restituisce l’umanità nell’era digitale. Oggi, i valori dell’artigianato – sostenibilità, cura e “saper fare” – risuonano con una forza rinnovata, dimostrando che, anche nell’era digitale, rimane una profonda sete di autenticità, di quel contatto vero che solo l’uomo, con la sua mano e la sua passione, può offrire.

È in questo incontro tra passato e futuro, tra uomo e tecnologia, che ritroviamo la nostra anima, quella stessa anima che ci spinge a creare e a restituire bellezza al mondo.

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[1] Intervista a Susanna Tamaro, Corriere della Sera, 2023.
[2] Alessandro D’Avenia, riflessioni tratte dal suo intervento a Il Fatto Quotidiano, 2023.
[3] Richard Sennett, L’Uomo Artigiano, trad. it., Feltrinelli, Milano, 2008.