Il turismo di massa ha trasformato radicalmente il concetto di viaggio, che era una prova di coraggio e audacia, un’esperienza di arricchimento umano, in una ricerca di piacere immediato, spesso stimolata dalla noia. Dal viaggiatore esploratore siamo passati al turista-consumatore, concentrato su sé stesso piuttosto che sull’altro. Un turismo “mondofago” che consuma e distrugge ciò che lo nutre, ormai incentrato su logiche esclusivamente economiche, come spiega Houellebecq parlando di un’”economia della frustrazione” che ignora la dimensione autentica della relazione tra turista e ospitante (sia residenti che imprese). Il mondo diventa un set scenografico, in una società dove sembra che senza la fuga non si possa vivere gioiosamente, vendendo l’evasione ma cancellando la sacralità trasformativa del viaggio.

Il viaggiatore di oggi si uniforma: muoversi è diventato banale, parte del flusso del capitalismo globale. Ritorna allora l’invito a riscoprire la spiritualità del viaggio, fatta di avventura e di scoperta di luoghi artigianali, autentici e poco conosciuti. Su questa linea, è significativo anche il saggio Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo di Marco D’Eramo, che demistifica il turismo attuale, svelando luoghi storici trasformati in luna park, dove i turisti si osservano l’un l’altro, le tradizioni locali si perdono e l’artigianato lascia spazio a negozi standardizzati.

Queste opere dovrebbero essere lette sia da operatori del settore che dai cittadini comuni. I primi possono così comprendere il rapido cambiamento in atto e le sue conseguenze, i secondi imparare ad apprezzare ciò che li circonda, evitando di delegare al viaggio la soluzione ai propri mali. L’unico vero viaggio dovrebbe alimentare i legami della propria comunità, fatta di cittadini e imprese, portatrici di relazioni e valori.

In un mondo saturo di turismo, non esiste più un’accoglienza autentica. Dove una volta il viaggiatore veniva accolto in modo personale e con curiosità, oggi il turista, cliente tra tanti, esige un’accoglienza che risponda alle sue aspettative, governate da logiche di flusso e consumo. L’incontro non è più interessante, ma interessato.

Quanti di noi hanno visitato luoghi lontani senza conoscere i tesori del proprio territorio? Una riflessione valida in un contesto dove sofisticate strategie di marketing spingono mete esotiche o affollate, dimenticando la bellezza locale. L’”undertourism” rappresenta invece una nuova modalità di viaggio che valorizza destinazioni meno conosciute, spesso fuori dai circuiti tradizionali, incentivando esperienze lente, autentiche e rispettose delle comunità ospitanti. Basterebbero un po’ di curiosità e creatività per godersi luoghi straordinari, senza folla e magari anche risparmiando.

L’Italia, con il suo patrimonio unico al mondo, attira innumerevoli visitatori, ma il turismo viene ancora visto come un fenomeno unico e omogeneo. Questa visione deriva dal turismo di massa organizzato, che è stato il modello dominante negli ultimi decenni.

Come trovare un equilibrio tra le destinazioni, sapendo che i turisti non possono essere “spalmati” o gestiti dall’alto? È necessario agire sulle stesse forze che generano attrazione. Ciò è possibile, e si può far leva sulla teoria del “Nudge” (o “spinta gentile”) proposta da Thaler e Sunstein, che suggerisce come piccoli stimoli possano orientare le scelte in modo positivo e senza coercizioni.

Nel turismo attuale prevale invece una “nudge” negativa, dove il clickbait sposta l’attenzione sulle attrazioni più famose, ingrandendo il fenomeno di polarizzazione turistica. La teoria del Nudge, se applicata al turismo, suggerirebbe di valorizzare le destinazioni di “secondo livello” (second best) e di spostare l’attenzione verso mete meno frequentate, facendo leva sulla logistica e sul messaggio distintivo di ogni località.

Dobbiamo quindi essere bravi a mettere in gioco tutte le “spinte gentili” capaci di indirizzare i turisti verso “itinerari gentili”, stimolando il visitatore a ricercare l’autenticità del territorio.

Perché, in sostanza, dovremmo percorrere la via del nudge? Perché è una questione anche di credibilità della nostra alternativa.

L’obiettivo di un nudge, ribadisco il concetto, non è quello di stravolgere opinioni o atteggiamenti del turista, ma di stimolarne una ritrovata consapevolezza. Il nudge, con il suo seguire una scelta di civiltà pacata, educata, che migliora il benessere collettivo, può aiutare un cambiamento che sia duraturo. Una reale rivoluzione “positiva” non può mai, infatti, essere violenta o restrittiva, e sotto questo aspetto il nudge è la nostra più grande arma. Un’arma “gentile”, che non vieta e non punisce.

Il nudge tocca allora le corde della nostra componente umana, le nostre sensibilità, e accende la parte etica che si trova all’interno dell’architettura delle scelte, a beneficio della società.

Se cambiamento deve essere, che sia percepito con dolcezza.

Insomma: c’è ancora spazio per ritrovare una connessione profonda, guardare più vicino, immergerci nei luoghi che custodiscono storie autentiche, e lasciarci trasformare dalle esperienze che vanno oltre il semplice consumo. In fondo, non è tanto la destinazione che conta, quanto la qualità di ciò che siamo pronti a scoprire e a vivere. Ogni angolo, ogni strada, ogni incontro può diventare una porta che ci apre a un’umanità condivisa, a una bellezza che non ha bisogno di essere “venduta”, ma solo vissuta.

Tornare a guardare con occhi nuovi il mondo che ci circonda è un viaggio che ci può salvare, e che spesso non è mai troppo tardi per intraprendere.

 

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