La crisi del comparto automobilistico è arrivata come uno tsunami sulle imprese artigiane, già peraltro alle prese con un momento economicamente complesso. L’onda lunga tedesca ha colpito forte, in particolare le piccole e medie realtà produttive che operano nella filiera. Questo sta generando lo scenario che da mesi, ormai, è sotto gli occhi di tutti: chiusure aziendali, un ricorso straordinario agli ammortizzatori sociali e un grave problema di prospettiva in ordine alla tenuta occupazionale. Senza contare – tema, questo, tutt’altro che secondario – il rischio di ‘perdere’ una parte di identità del nostro comparto produttivo che ci rende un’eccellenza a livello globale. “Le imprese italiane sono due volte vittima della de-industrializzazione: agiscono, infatti, sia fattori strutturali che congiunturali che rischiano di pregiudicarne, in alcuni casi, la sopravvivenza”.

Il campanello d’allarme lo suona, sulle colonne di Spirito Artigiano, Domenico Lombardi, economista di vaglia, lucido osservatore delle dinamiche nazionali e internazionali nonché direttore del Luiss Policy Observatory.

 

Professore, partiamo dai fattori strutturali che hanno generato questa crisi così profonda. Che idea si è fatto?

«Ci sono due elementi da cui partire. Ossia bassi investimenti nell’innovazione tecnologica, nella ricerca e nello sviluppo. Una condizione che fa il paio con un contesto non propriamente propizio per le imprese: un’eccesso di regolamentazione a tutti i livelli, una pubblica amministrazione che fornisce pochi servizi e spesso di bassa qualità. Da ultimo, si aggiunge l’eccessivo carico fiscale che grava sulle piccole e medie imprese. A questi due fattori, se ne aggiunge un terzo ugualmente impattante in senso negativo».

A cosa fa riferimento?

«Alla politica energetica. Le imprese italiane pagano l’energia molto di più non solo rispetto agli Stati Uniti, ma anche rispetto agli altri paesi dell’Unione Europea. Questo è un fattore che frena fortemente la competitività delle nostre aziende. E non è un tema che dipende solo dalla guerra in Ucraina – che comunque ha posto in evidenza questo errore strategico in modo macroscopico – ma è qualcosa che parte da più lontano».

Come si inserisce, in questo ragionamento, il contesto internazionale?

«La riduzione dei flussi di commercio internazionali grava pesantemente sulla nostra filiera dell’automotive (ma non solo). In particolare, le tensioni con Russia e Cina sono estremamente complesse da gestire e non saranno destinate a risolversi nel breve termine. In più, con l’imminente insediamento di Trump alla Casa Bianca, il rischio di una politica protezionista potrebbe generare un’ulteriore difficoltà per le nostre aziende. A maggior ragione se da parte degli Usa ci sarà una molto probabile richiesta di restrizioni commerciali fra Europa e Cina. Ricordiamo che, in particolare la Germania – Paese da dove nasce, di fatto, la crisi del comparto automotive – ha fortissimi legami con il paese del Dragone».

A questo si aggiunge anche l’annoso tema della transizione ecologica, al centro delle politiche di Bruxelles negli ultimi anni.

«L’impostazione di alcune politiche assunte a livello comunitario ha reso il quadro per le imprese italiane, in particolare per quelle artigiane, assai penalizzante. La transizione così come è stata concepita ha colpito le nostre filiere, che sono un’eccellenza. E, fra l’altro, l’introduzione sul mercato di auto elettriche cinesi a detrimento di quelle tedesche — che avevano componentistica italiana –, ha ulteriormente ridotto le possibilità di competere sul mercato da parte delle nostre aziende. In sostanza, è stato offerto un vantaggio competitivo a un paese terzo — la Cina — geopoliticamente ostile, senza che quest’ultimo abbia fatto nulla per meritarselo».

Questo significa che la transizione è dannosa?

«No, significa che occorre cambiare approccio. Ci vuole meno ideologia e più pragmatismo. Non è ammissibile in nome della transizione – che pure è giusto che rappresenti una priorità – destrutturare completamente un sistema produttivo. Peraltro l’Europa non è una grande produttrice di anidride carbonica, quindi molte politiche piuttosto impattanti non otterranno sicuramente gli effetti sperati. Senza contare l’iper regolamentazione che si è registrata su questo versante».

A questo punto, come uscirne?

«Occorre, da parte della Commissione Europea, un cambio di passo deciso. Rivalutare la postura su alcune policy da parte di Ursula von der Leyen è fondamentale. Sulla decarbonizzazione, servono strategie più consapevoli. Soprattutto più consapevoli di come è conformato il sistema produttivo italiano. Basato, per lo più, sulle micro,piccole e medie imprese artigiane che vanno difese anche per salvaguardare l’identità del nostro sistema produttivo».

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