Al di là della dicotomia piccolo/grande, negli anni Sessanta e Settanta il Censis di Giuseppe De Rita contribuì a interpretare l’evoluzione di un Paese in pieno boom economico che imboccò una strada inattesa: quella del decentramento produttivo e della diffusione delle PMI. Fu la spinta imprenditoriale dal basso a diventare il motore di una crescita economica tumultuosa, ma anche eterodossa rispetto alle principali teorie economiche del tempo.

 

Il grande merito dell’analisi del Censis fu quello di cogliere la dinamica profonda di una società che entrava con entusiasmo e determinazione nella sua stagione matura, mostrando una straordinaria vitalità, originalità e genialità. L’Italia, infatti, è l’unico Paese in cui lo sviluppo economico del secondo dopoguerra non si è accompagnato a una semplice crescita delle imprese esistenti, ma ha portato a un aumento significativo del loro numero.

L’interpretazione offerta dal Censis è stata però spesso contestata da chi sostiene che il problema dell’Italia sia dato proprio dall’eccesso di piccole e medie imprese, considerate un vincolo alla modernizzazione del Paese. Secondo questa prospettiva, la soluzione sarebbe favorire un processo di aggregazione per creare imprese più grandi, capaci di superare i limiti di una struttura produttiva troppo frammentata.

In questo senso, il Terzo  Rapporto Italia Generativa  fornisce alcuni elementi di valutazione che possono aiutare la riflessione ad andare oltre questa sterile contrapposizione, ormai superata anche dall’accresciuto fenomeno esemplare delle cosiddette “multinazionali tascabili”: piccole e medie imprese dinamiche che hanno mostrato una capacità competitiva basata non sui costi, ma sulla qualità della produzione e su un decentramento territoriale virtuoso.

 

Nel confronto con il panorama europeo, l’idea che l’Italia sia un Paese fondato esclusivamente su piccole imprese appare solo parzialmente vera.

 

Intanto, questa caratteristica non sembra essere un’esclusiva italiana.

Osservando i dati continentali, fatta eccezione per Paesi con situazioni particolari come Lussemburgo, Svizzera, Irlanda e Olanda, il quadro dimensionale delle imprese italiane non si discosta molto da quello di economie comparabili per popolazione e sviluppo. Ad esempio, analizzando il numero di imprese per classi di addetti, emerge che il 94,6% delle imprese italiane sono microimprese con meno di 10 dipendenti, un valore in linea con la media europea (94,2%) e con Paesi come la Francia (96,1%) e la Spagna (94,8%). Solo la Germania presenta una percentuale significativamente inferiore (84%) e una distribuzione più bilanciata tra le varie dimensioni aziendali.

Anche il numero medio di addetti per impresa in Italia è simile a quello della Francia (4) e vicino a quello della Spagna (5), che corrisponde alla media europea. In questo caso, la differenza rimane significativa con la Germania, dove il valore sale a 12.

L’Italia si distingue per il numero totale di imprese. In questo indicatore, il nostro Paese si colloca al secondo posto in Europa (4,5 milioni), dopo la Francia (5 milioni) e prima di Spagna (3,5 milioni) e (piuttosto distaccata) Germania (3,2 milioni). Allo stesso tempo, l’Italia è prima per numero di imprese nei settori manifatturiero e commerciale.

Per comprendere la specificità italiana, però, occorre guardare in un’altra direzione.

Se si considera il fatturato netto, l’Italia si colloca al terzo posto (4,2 milioni di euro), dopo la Germania (marcatamente al vertice del ranking con 10,4 milioni) e la Francia (5,6 milioni), mentre supera la Spagna (3 milioni).

Un altro interessante indicatore è la distribuzione del fatturato netto per classe dimensionale.

 

Dai dati emerge che in Italia le grandi imprese (oltre 250 addetti), che rappresentano lo 0,1% del totale delle imprese, generano solo il 38% del fatturato netto. In Francia, nonostante una percentuale simile di grandi imprese (0,1%), questo segmento arriva al 60%; mentre in Spagna, un altro paese simile al nostro, tale valore è del 46%. In Germania, dove la quota di grandi imprese è più alta (0,4%), queste ultime generano il 63% del fatturato.

 

Per quanto riguarda il valore aggiunto, l’Italia è terza in Europa con 1,1 milioni di euro, dopo la Germania (2,9 milioni) e la Francia (1,5 milioni).

Più che la sola dimensione delle imprese, il modello italiano sembra dunque essere caratterizzato dai seguenti elementi chiave:

  • Maggiore contributo delle microimprese. In Italia, il contributo delle imprese sotto i 10 addetti (che rappresentano il 94,5% del totale) concorre per un 23% al fatturato netto totale, contro un 16% della medesima fascia dimensionale francese (pari al 96,1%). Allargando la prospettiva e considerando le classi dimensionali, in Italia le imprese con meno di 50 dipendenti contribuiscono per oltre il 40% al fatturato netto, contro il 28% della Francia, il 37% della Spagna e il 23% della Germania. Guardando al fatturato netto per addetto, l’Italia supera Francia e Germania nelle classi 10-19 e 20-49 dipendenti. Anche il valore aggiunto per classe di addetti segnala il 26% delle imprese italiane, contro un 16% di quelle francesi. In sintesi, il valore aggiunto apportato dalle imprese sotto i 50 dipendenti è pari al 45% in Italia e al 32% in Francia e Germania.
  • L’Italia si distingue per la forte presenza di medie imprese industriali. Guardando al fatturato netto per addetto, supera Francia e Germania anche nella classe 50-249 dipendenti. Come dimostra la letteratura economica, lo sviluppo delle medie imprese italiane, che rappresentano gran parte della capacità di export del nostro Paese, è in larga parte il risultato dell’evoluzione dei distretti industriali. Si tratta di un segmento di grande rilevanza economica e strategica che, in presenza di determinate condizioni, ha dimostrato di poter evolvere ulteriormente, come conferma la “metamorfosi del modello emiliano”. I principali elementi che caratterizzano questo particolare sviluppo sono: l’irrobustimento delle dimensioni delle imprese, la spiccata apertura internazionale, il convinto investimento nel fattore umano e nella conoscenza, la capacità di infrastrutturare il contesto con reti fiduciarie e collaborative, oltre che con buone relazioni territoriali, il potenziamento delle specializzazioni di artigianato industriale e tecnologiche, la scelta chiara verso il miglioramento continuo della qualità di prodotti e servizi (innovazione) rispetto alla quantità (volumi), un dialogo convergente e fattivo tra sfera privata e sfera pubblica. In questo “modello”, la vocazione imprenditiva e la ricerca della coesione sociale sono diffuse, la media impresa emergente è in grado di catalizzare e fare da traino a un sistema più ampio di filiera.
  • La scarsa presenza di grandi imprese in Italia è un fenomeno storico. Tradizionalmente, le grandi aziende sono state di proprietà statale e attive in settori strategici come la chimica, la siderurgia e l’energia, che richiedono ingenti investimenti in infrastrutture. Nonostante la privatizzazione degli anni Novanta, questo modello persiste. La globalizzazione ha colpito maggiormente le grandi imprese private italiane rispetto alle PMI. Questo perché molte grandi aziende hanno dato la priorità ai risultati finanziari rispetto a quelli industriali, riducendo la qualità e la quantità degli investimenti. Di conseguenza, il fatturato delle grandi imprese pubbliche italiane è passato da 75 a 150 miliardi di euro tra il 1991 e il 2016, mentre quello delle grandi imprese private è sceso da 55 a 29 miliardi. Questo declino è dovuto anche alla delocalizzazione, con alcune aziende che si sono trasferite all’estero per sfruttare incentivi economici e fiscali, mentre altre sono state acquisite da gruppi stranieri. Anche le imprese estere incontrano difficoltà in Italia, spesso a causa di un contesto giurisprudenziale e burocratico sfavorevole.

Il tessuto imprenditoriale italiano costituisce un ecosistema articolato, caratterizzato da varietà dimensionale (con la convivenza di micro, piccole, medie e grandi imprese), pluralità settoriale (manifatturiero, servizi, agroalimentare) e radicamento territoriale (sviluppo distrettuale, realtà urbane e periferiche). Questa particolare configurazione presenta indiscutibili punti di forza, ma allo stesso tempo presenta diverse fragilità strutturali, alcune delle quali già ben note, come l’elevata frammentazione, il passaggio di testimone dall’industria ai servizi (sebbene il settore manifatturiero rimanga solido) e la scarsa propensione a investire, soprattutto da parte delle piccole e microimprese. Queste incertezze sollevano interrogativi sulla morfologia della struttura produttiva e sulla capacità delle imprese di questa fascia di crescere ulteriormente. Le preoccupazioni sono legittime, considerando le forti tensioni geopolitiche e l’instabilità del quadro macroeconomico globale.

Oggi, in particolare, tra le questioni con cui l’Italia si trova a fare i conti ci sono:

  • bassa produttività. In termini di produttività del lavoro corretta per i salari, l’Italia è al di sotto della media UE (149,4% contro 152,6% EU). La bassa produttività ha conseguenze significative sulla capacità del Paese di crescere e mantenere il livello di vita raggiunto nei decenni passati.
  • Bassi salari: questo dato ha una triplice spiegazione. In primo luogo, il forte carico fiscale che pesa sul lavoro: in Italia, gli oneri sociali a carico del datore di lavoro raggiungono il 27,6% delle retribuzioni, mentre la media EU è pari al 21,8% (in Francia sono il 28,3% e in Germania il 19,4%). Questo comprime le disponibilità economiche per sostenere gli stipendi. In secondo luogo, la tendenza a una redistribuzione delle risorse dal lavoro al capitale, che si registra in Italia come in altri Paesi. Infine, la sopracitata bassa produttività, che da un lato comporta l’impossibilità di distribuire ricchezze e dall’altro persiste proprio in ragione dei bassi salari, che costituiscono un’alternativa all’investimento in nuove tecnologie e nuovi modelli organizzativi.
  • Vulnerabilità di un modello centrato sulle medie imprese altamente competitive: la forte instabilità geopolitica rischia di mettere a repentaglio i risultati ottenuti. Tanto più che la virtuosità della parte esportatrice del modello economico italiano non è allineata con il forte indebitamento pubblico e la più generale scarsa produttività del Paese. È come se ci fossero due Italie che hanno ben poco a che fare l’una con l’altra, dove la prima in larga parte sostiene la seconda.

La recente riduzione dei tassi di interesse ha fornito un impulso positivo all’economia, ma la redditività delle imprese ha mostrato segni di peggioramento. Il credito erogato è rimasto stabile rispetto allo scorso anno (+0,9%), con una lieve crescita in termini di importi (+2,4%), nonostante gli aumentati costi di finanziamento. La capacità delle imprese di rimborsare i debiti è rimasta mediamente buona, e il tasso di deterioramento dei prestiti bancari si è confermato contenuto. Tuttavia, il tasso di default medio delle società di capitali è stimato in leggero incremento sull’anno precedente (+2,9%) a fine 2024. Questo scenario evidenzia una fragilità strutturale che ostacola gli investimenti e le strategie di lungo periodo.

Il sistema finanziario italiano è stato oggetto di molte analisi, in particolare per quanto riguarda il modello “banco-centrico”. Anche in relazione ai processi di verticalizzazione in atto, il tema dell’accesso alle risorse finanziarie merita attenzione, considerando le caratteristiche intrinseche dell’imprenditoria italiana. Anche i dati relativi alle imprese sociali del nostro Paese mostrano un quadro finanziario fragile: il 68% dichiara di avere un orizzonte di sostenibilità finanziaria di soli 12 mesi, il 16% circa una sostenibilità inferiore ai 3 mesi, e solo il 7% circa afferma di avere una prospettiva superiore ai 24 mesi.

La polarità tra piccole e grandi imprese racconta molto di più di quanto si pensi. Essa evidenzia la tensione di fondo tra standardizzazione e scalabilità da un lato, e varianza e innovazione dall’altro; o tra globalizzazione da un lato e radicamento locale dall’altro.

Il modello italiano si caratterizza per la forte presenza di un’élite con matrice industrialista, impegnata a valorizzare le competenze locali. Questa élite anima un’imprenditorialità vigorosa e un’economia intermedia operante secondo logiche di filiera, lascito di una lunga storia di creative produzioni artigianali.

La gestione di questa tensione non è mai stata facile per il nostro Paese, che ha dimostrato di non essere adatto alle grandi imprese. E non lo è tutt’oggi.