Al secondo posto tra i Paesi europei per il numero di imprese attive (dietro alla Francia), l’Italia è al terz’ultimo posto per tasso di natalità, cioè il rapporto tra numero di attività avviate in un anno rispetto a quelle attive nell’anno precedente.
Le imprese italiane sopravvissute dopo 3 anni dalla loro costituzione rappresentano il 4,4% della popolazione totale delle imprese attive, una quota tra le più basse in Europa, 1,5 punti percentuali inferiore rispetto alla media UE (5,9%).
Si tratta di situazioni che appaiono contraddittorie ma che solo in parte lo sono in quanto tutta la crescita industriale dell’Italia a partire dal Secondo Dopoguerra potrebbe essere ricompresa e mirabilmente sintetizzata nel concetto metaforico del volo del calabrone. Come si sa, secondo la teoria aerodinamica il calabrone non potrebbe volare ma lo fa lo stesso. Questa metafora è particolarmente usata per sottolineare la capacità del sistema economico italiano di operare efficacemente anche in assenza di condizioni ottimali.
Sulle anomalie di sistemi produttivi locali di successo, dove nel tempo si è intrapreso senza avere l’impresa descritta nei manuali di economia e trovandosi parte in sistemi di subfornitura di prossimità ne parlano Fabrizio Galimberti e Luca Paolazzi ne Il volo del calabrone – Breve storia dell’economia italiana del Novecento (Le Monnier, 1998), che si avvale di una significativa premessa di Giacomo Becattini, il massimo studioso del fenomeno dei distretti industriali e del localismo imprenditivo italiano. Becattini pubblica poi (Il Mulino, 2007) Il calabrone Italia – Ricerche e ragionamenti sulla peculiarità economica italiana.

L’economista fiorentino apre una prospettiva nuova alla lettura dei fenomeni dello sviluppo economico del Paese (su cui poi darà riscontro lo stesso Giuseppe De Rita con il Censis), ponendo al centro dell’attenzione aspetti che la visione tradizionale, prigioniera dell’idea dell’inevitabile avanzamento del gigantismo industriale, lasciava in ombra. Per Becattini e De Rita il fulcro dello sviluppo è nell’intraprendenza geniale dell’agente umano, col suo impegno, la sua intelligenza, la sua creatività: nel lavoro, nella ricerca scientifica, nelle organizzazioni, nel sociale, nella vita in generale. Il ruolo del progresso tecnico in senso stretto ne viene, conseguentemente, ridefinito e storicizzato. Quando si affacciano i primi dilemmi connessi ai segni del declino economico del Paese, gli studi di Becattini e della sua scuola come anche la ricerca di De Rita si staccano dalla vulgata economicista del pensiero dominante per sottolineare la necessità di politiche industriali che sviluppino, riqualificandoli, i tradizionali punti di forza del ‘modello italiano’.

Prima di procedere vale la pena di riportare la definizione di sistema produttivo locale – cioè ‘distretto industriale’ – che enuncia Becattini: “Definisco il distretto industriale come un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali. Nel distretto, a differenza di quanto accade in altri ambienti (ad esempio, la città manifatturiera), la comunità e le imprese tendono, per così dire, ad interpenetrarsi a vicenda. Il fatto che l’attività dominante sia quella industriale differenzia il distretto da una generica «regione economica».” (Becattini, IL DISTRETTO INDUSTRIALE MARSHALLIANO COME CONCETTO SOCIO-ECONOMICO, “Studi e informazioni – Quaderni” / 34, 1989).
Non ci soffermeremo ulteriormente sui concetti del distretto industriale marshalliano: l’atmosfera industriale, o “industrial atmosphere” nel contesto dei distretti industriali marshalliani, si riferisce a un ambiente sociale e culturale che favorisce la collaborazione, la condivisione di conoscenze e l’innovazione all’interno di un’area geografica specifica. Questo concetto, elaborato da Alfred Marshall (1922), descrive come la concentrazione di imprese e lavoratori in un distretto industriale crei una sorta di ‘contagio’ di idee e competenze.
Per i connotati originari del ‘capitalismo’ individuale italiano, che ancora è il genoma dell’intraprendenza specifica italiana, indipendentemente dalle epoche, rimandiamo a Giorgio Bocca, Miracolo all’italiana, del 1962 (Feltrinelli), che descrive la cultura piccolo borghese di provenienza contadina della riproduzione virale del fai-da-te imprenditoriale locale (imprenditori senza azienda).
L’Italia degli inizi degli Anni ’60 era ancora molto povera, arretrata e modesta. Ma al contrario di oggi quell’Italia aveva un animo lieto e alacre. E nonostante le inevitabili difficoltà della vita, era un Paese percorso da un’idea di grande fiducia e di progresso di sé e del mondo. E gli italiani un popolo di “individualisti dell’unicità” (Magatti) dalle aspettative crescenti. Oggi, in una fase segnata dal rancore e dalla paura, quelle pagine di Bocca potrebbero sembrare lontane. Eppure il suo sguardo è come sempre fulminante e attuale. Basti solo ricordare l’incipit, tra i più famosi del giornalismo nostrano: “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste”. Qui Bocca parlava di Vigevano, ma valeva per tutte le aree locali del Centro-nord.

L’immaginario del successo della micro e piccola impresa italiana risente ancora del suo periodo d’oro, ovvero il trentennio 1950-1980. Uno dei dati su cui si fonda la narrazione del cosiddetto ‘miracolo economico’ è la crescita del Pil dell’Italia, che all’inizio degli Anni ’60 toccava punte di oltre il 6%, fin quasi a 7.
Ma con la crescita progressiva, dapprima lenta ma che poi s’impenna dagli Anni ’70 in poi, del debito pubblico il famoso ‘boom’ deve considerarsi concluso. (Nel 1973 il rapporto Pil-debito pubblico in Italia era intorno al 50%, in aumento rispetto al 36% del 1970. Questo incremento fu in parte dovuto all’introduzione delle baby pensioni e poi ad altri fattori dell’estensione del welfare state che pesarono sui conti pubblici.)
Un altro apporto decisivo all’individuazione e comprensione delle peculiarità imprenditive del modello italiano lo danno gli studi di Enzo Rullani e di Aldo Bonomi. Per tutti rammenteremo qui Il capitalismo personale – Vite al lavoro (Einaudi, 2005).
“L’espressione «capitalismo personale» mette insieme due termini contraddittori, che in passato si è cercato di separare. La natura impersonale del capitale – considerata sinonimo di modernità – lo identificava strettamente con l’ambito dell’azienda, mentre la persona apparteneva allo spazio proprio della vita privata, nettamente distinto dall’ambito tecnico della produzione. Oggi però il capitale ha sempre più bisogno delle persone, che si impegnino nelle aziende utilizzando al meglio le proprie capacità e sviluppando autonomie crescenti”. Nuove opportunità certo, ma anche rischi e sofferenze dal soggiogamento alle nuove dittature del prestazionismo e del risultato.
“«L’Italia” – dicono Rullani e Bonomi – “non è soltanto un capitalismo di piccola impresa. È molto di più. Infatti, la piccola impresa italiana compete sul mercato non tanto perché è piccola, ma grazie alla sua straordinaria capacità di sfruttare i vantaggi della divisione del lavoro e della condivisione di conoscenze, mediate da relazioni interpersonali e dal capitale sociale sedimentato sul territorio. Inoltre, la piccola impresa è moderna e compete sul mercato perché mette direttamente in gioco la forza vitale delle persone che la animano, prima di tutto dell’imprenditore e delle reti interpersonali che lo collegano ai dipendenti, ai finanziatori, ai fornitori, ai clienti. Il capitalismo italiano è, dunque, qualcosa di più e di diverso da un capitalismo di piccola impresa. È un capitalismo personale, basato sulle persone e sulla loro capacità di intraprendere, condividendo progetti, assumendo rischi, investendo risorse personali e familiari nella grande avventura».”
Come si sa tutte le narrazioni risentono dell’origine pionieristica del successo e della crescita, ognuno ha il suo West.

Ma se vogliamo vedere in quali ed a quali condizioni potranno svilupparsi nuove imprenditorialità italiane dobbiamo innanzitutto uscire dal racconto del ‘made in Italy’ del Novecento e da molti dei suoi stereotipi. Come per la Ferrari, il mito resta tale – anche nel suo indice spirituale – e si consolida se dimostra di sapersi ritradurre nelle condizioni attuali e nelle prospettive future. Ovvero: senza l’azione costantemente rigenerativa il Nuovo non nasce. Per cui ciò che può accadere accade solo nei termini precedenti, avulso dalle spinte dei nuovi contesti, delle nuove condizioni e soprattutto da una indispensabile nuova visione.
Le imprese nascono da un’Idea Originaria che suscita un Desiderio, il desiderio di realizzarla. Questo desiderio si genera nello spirito che anima, che agita la propria Vocazione. I talenti – che ciascuno ha – sono individuati e sviluppati ascoltando la vocazione, e seguendola. Ogni vocazione è spinta all’intrapresa di un viaggio che cerca la realizzazione dell’Idea Originaria.
In questo senso intraprendere, dal latino intra (= fra) e prehèndere (= prendere), vuol dire ‘prendere fra due o più cose’, e quindi scegliere di dedicarsi ad una piuttosto che alle altre. ‘Intraprendere’ vale per ‘imprendere’ (= dal latino ‘prendere in un certo verso’), da cui ‘impresa’, che vuol dire ‘cominciare a fare’, ‘impegno’, ‘opera’.
Un modello di impresa che ha lo spirito del capitalismo italiano è l’impresa artigiana. Ma questo in quanto esiste il concetto di Artigiano come indice di qualcosa che si rigenera continuamente de-coincidendo con quello che già è realizzato. In questo senso questo spirito universalistico del bello e della pienezza differisce – anzi è il contrario – dell’uniforme, che è ripetizione standardizzata.
L’intraprendere che genera Valore per le Relazioni che fanno vivere una comunità si fonda sull’imperfezione creativa, che è il motore dello Spirito Artigiano. “Noi siamo il risultato di una serie di imperfezioni che hanno avuto successo. Il nostro cervello e il nostro genoma, due tra i sistemi più complessi che la natura abbia prodotto, sono pieni di imperfezioni. Sono le strutture imperfette a farci capire in che modo funziona l’evoluzione: non come un ingegnere che ottimizza sistematicamente le proprie invenzioni, ma come un artigiano che fa quel che può con il materiale a disposizione, trasformandolo con fantasia, arrangiandosi e rimaneggiando.” (Telmo Pievani, Imperfezione – Una storia naturale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2019).
Come potremmo tradurre la parola ‘artigiano’ – il cui spirito muove una persona a trasformarsi in un Intraprenditore – con un’altra parola? Dovremmo dire che Artigiano è traduzione di Umano, della parola ‘Umano’. Quindi artigiano come sinonimo di sperimentalità. E umano come sinonimo di divenire. Una persona è un cantiere, nessun individuo è da una parte ma è invece in un cammino.
L’agire artigiano è cammino di trasformazione continua verso nuovi immaginari. E oggi, proprio rispetto all’intelligenza artificiale, è un agire umano, non tanto perché ‘naturale’ ma perché dotato di una Intelligenza “Artigiana”. L’uomo come ‘invenzione artigiana’, e che quindi viaggia inventandosi, come l’Ovest per Colombo.
Solo un essere ‘artigiano’ è capace di una filosofia dello sconosciuto, e quindi di provare a trasformare l’ignoto in nuove soluzioni, in nuovi paesaggi da abitare, in luoghi da riconoscere, in relazioni da riscoprire. Perché Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries: non conosciamo cosa ci è sconosciuto, come diceva la sfida di una Biennale di qualche anno fa.
Per questo la possibilità che una comunità e la sua Fraternità divengano un’esperienza di meraviglia sta solo nella possibilità che esse siano continuamente reinventate. Proprio grazie alla paradossalità di un ‘fare artigiano’, alla sua creatività artistica, al suo continuo differire da ciò che appare, il lavorare assieme trova sempre situazioni nuove in cui esprimersi.
E il lavorare, l’intraprendere con stile artigiano generano ambienti di fraternità, luoghi dove relazioni, vicinanza, comprensione, sguardo sui problemi dell’altro sono nella quotidianità la forza dell’Artigianìa.
La creatività, il tratto identificativo del fare artigiano, è dunque un grande motore di rinnovamento culturale che permette alle Società Occidentali di riconoscere e sapersi porre nuove sfide. Dove ‘Nuovo’ è scarto da ciò che l’ha preceduto. Oggi è vero più che mai quel che Theodor W. Adorno alla soglia degli Anni ’70 del Secolo scorso, annotava, nella sua Estetica: «Di fatto, non è quasi più possibile un’arte che non sia anche esperimento». E in effetti, mentre maturava nel mondo occidentale un senso di crisi dei modelli interpretativi in vigore, l’arte ha compiuto una svolta sperimentale, che ne ha trasformato radicalmente le forme e le finalità. La natura sperimentale dell’arte deve necessariamente coinvolgere quella radicata della coscienza credente. Ma come? Qual è il punto?
“Oggi – in piena crisi dell’ordine mondiale e dell’ordine mentale sconvolto dall’intelligenza artificiale – l’arte deve aprirsi a ciò che non sappiamo, a ciò che non sappiamo di non sapere e che le macchine non sono in grado di restituirci con i loro algoritmi. La creatività artistica oggi è una condizione per restare umani, e non solo un’attività umana. Creatività significa bucare la «bolla filtrata» in cui siamo finiti, recuperare una trascendenza radicale che stiamo perdendo, abbassando sempre di più il nostro orizzonte. Il vero problema oggi è questo: come essere creativi al tempo dell’algoritmo? Come fare cultura al tempo dell’omologazione? Se un tempo alla domanda «Chi sono io?» si rispondeva con opere come le Confessioni di Agostino, oggi si risponde con un selfie. Occorre recuperare la distanza tra lo spirito e il selfie, dunque. … Con una consapevolezza: creatività e trascendenza indicano un «altrove» che va ben oltre lo studio, lo sforzo progettuale. È il campo della gratuità, dell’ispirazione, del genio. «Non basta essere intelligenti; occorre esser geniali» scriveva nella metà del XVII Secolo il gesuita Baltasar Gracián nel suo ben noto Oráculo manual y arte de la prudencia. Oggi serve il «colpo di genio». E dove abita il genio? Non vive nella probabilità, ma nella possibilità. I dwell in possibility (io abito la possibilità), scriveva Flannery O’Connor.” (“Antonio Spadaro: apriamoci con l’arte a ciò che non sappiamo”, “Avvenire”, 29 Marzo 2024).
Nel Rapporto Italia Generativa 2024, presentato l’8 Aprile scorso in Unioncamere a Roma con il titolo “Giro di boa – il segno che resta dell’imprenditorialità italiana”, realizzato dal Centro di ricerca Arc dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e da “Genialis”, Mauro Magatti annota: “Il giro di boa che i rapidi cambiamenti geopolitici e tecnologici stanno imponendo mette l’impresa italiana davanti a un crocevia epocale: come far transitare un patrimonio unico di valori che rischia di opacizzarsi se non rigenerato alla nuova fase storica che si va formando davanti ai nostri occhi?
La storia ci consegna un modello distintivo – creativo, umanistico, radicato nei territori – che ha fatto della qualità relazionale e della bellezza il suo tratto identitario. Un sistema che è prosperato grazie alla sua capacità di sviluppare una propria specificità produttiva (tecnodiversità), di mantenere una relazione vitale col territorio (neghentropia), nel quadro di una cura ecosistemica che ha sempre garantito una ricca biodiversità.
Oggi però questo DNA rischia di subire le implicazioni negative derivanti dal combinato disposto tra ipercompetizione globale, declino demografico e riduzione del dinamismo imprenditoriale.
La via da percorrere è quella di valorizzare gli elementi distintivi del nostro modello economico senza indulgere nella retorica della “buona differenza”, ma lavorando attivamente per correggere i fattori distorsivi e ostativi che possono impedire quella metamorfosi di cui oggi c’è bisogno.
Il capitalismo italiano possiede anticorpi preziosi che vanno riscoperti e declinati in chiave contemporanea”.
Fra i principali elementi che frenano un giovane dall’imprenditorialità – cosa che impedisce la ricontestualizzazione del capitalismo italiano – vi è la paura del fallimento: nel 2023 in Italia il 48,5% delle persone tra i 18 e i 64 anni ha dichiarato di non voler avviare una impresa per timore di fallire, pur percependo buone opportunità imprenditoriali. Il dato italiano è superiore a quello di Paesi come Germania (38,6%), Francia (40,1%) e Spagna (46,2%).
Nelle situazioni istituzionali, socio-economiche e culturali del mondo di oggi ciò è del tutto comprensibile, persino giustificabile.
Eppure il coraggio è indispensabile comunque. Ci viene in soccorso il commento del regista Paolo Sorrentino la notte degli Oscar del 2022:
“Sono felice. Io ho fallito nelle migliori condizioni di spirito. Sono molto contento di essere arrivato nella cinquina. Qui tutti vivono la cinquina come una vittoria. Quindi io sono felice”.
A chi gli chiese se fosse rimasto deluso dal verdetto dell’Academy, cita Robert Louis Stevenson: “Il nostro compito non è riuscire, ma fallire nelle migliori condizioni possibili. E io fallisco nelle migliori condizioni di spirito. Non lo considero un fallimento”.

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