
Nel tempo delle sfide globali, delle trasformazioni tecnologiche rapide e di un crescente senso di smarrimento nei territori, l’impresa artigiana può ancora essere un luogo vivo di relazione e uno spazio “generativo” di valore multiforme, economico e, insieme, sociale, per il presente e il futuro del Paese?
Prendere sul serio questa domanda significa uscire dalla facile retorica per mettere in discussione gli immaginari costruiti attorno ad un’identità artigiana come parte viva delle radici italiane. Solo per questa via, infatti, potrebbe essere possibile superare l’automatismo della risposta, per ripensare, riattualizzandole, le ragioni e le passioni di quel patrimonio imprenditoriale, generando così nuove prospettive di senso e di lavoro.
*Giro di boa
Un aiuto in questa direzione arriva dal III Rapporto Italia Generativa che invita a leggere l’attuale contesto come finestra di opportunità per far compiere all’intrapresa italiana un “giro di boa”: un cambio profondo nella direzione di marcia, per lasciarsi alle spalle un modo individualistico, autoreferenziale, e solo strumentale – e dunque insostenibile – di pensare e fare l’impresa, anche quella artigiana, e riscoprirne la dimensione costituzionalmente relazionale, collettiva e contestuale.
I dati raccolti confermano la crucialità della questione: la mancanza di una risposta sensata alle sollecitazioni che ci arrivano dalla transizione digitale ed ecologica, dalle trasformazioni demografiche, dall’incertezza geopolitica, dalla volubilità finanziaria non potranno che produrre una crescente marginalità, non solo di singole organizzazioni, ma di interi comparti e territori. È urgente compiere un movimento diverso, non per tornare indietro ad un passato nostalgico, ma assumersi la responsabilità dell’innovazione.
*Il segno che resta dell’intrapresa italiana
La buona notizia è che in questo passaggio epocale le imprese disponibili al cambiamento non sono sole: possiamo ancora contare sul “segno che resta” dell’intrapresa italiana, un segno che emerge tra le pieghe delle 12 interviste raccolte nella seconda parte del Rapporto.
Seppur eterogenee tra loro per dimensione, contesto, settore, le aziende narrate ci aiutano – non solo con le azioni ma anche a partire dalle logiche che le guidano – a ricomporre il DNA di un’intrapresa italiana che ha cercato di muoversi diversamente dal mainstream, cambiando, eppure rimanendo fedele a sé stessa.
L’impresa italiana assomiglia più alla pianta che ad un animale – per riprendere una efficace immagine dell’economista Luigino Bruni, È più simile ad un corpo vivente che a una macchina, più ad una comunità di persone – come ben descriveva Olivetti – che ad un capitano solitario a prua della sua nave. Un’impresa che si è pensata come rete di relazioni di reciprocità, motore di creatività e competenze diffuse, custode di saperi originali stratificati nei tempi e nei luoghi da trasmettere alle nuove generazioni, nodo di congiunzione tra qualità produttiva, etica e coesione sociale.
Ed è a queste imprese che possiamo guardare non come “modelli” da replicare, ma come esempi da cui lasciarci interrogare e ispirare nella ricerca di un nuovo senso – che è direzione e significato – dell’impresa artigiana.
*L’impresa è relazionale e contestuale
Le interviste sono molto chiare: oggi l’impresa che genera valore è quella che sa tessere e manutenere legami non solo strumentali, ma di visione; che riconosce e valorizza le sue persone; che ne attiva le potenzialità e le fa fiorire, restituendo senso e dignità al lavoro e al territorio. È questo il cuore dell’impresa generativa: la capacità di aprire nuove opportunità per sé e per altri, rigenerando continuamente la vita economica, sociale, culturale e istituzionale attraverso l’immissione di nuova spinta in termini di fiducia, legami, cultura, responsabilità e bellezza. Le esperienze raccolte confermano l’esistenza di luoghi produttivi dove l’identità aziendale non si separa dal tessuto sociale e culturale in cui è nata. Anzi, ne è una naturale evoluzione. In queste imprese il lavoro è vissuto come progetto, come bene condiviso, come alleanza tra generazioni.
Ne è un esempio Caimi, azienda di design industriale di terza generazione, che ha trasformato i suoi laboratori in un polo di ricerca aperto, dove arte, scienza, musica e impresa dialogano attorno al tema del benessere acustico. Un’impresa che, nel solco del suo fondatore Renato Caimi, continua a portare avanti una relazione di gratitudine fattiva con il territorio e dona il 50% del tempo dei suoi laboratori a enti di ricerca e artisti, nella convinzione che solo nel dialogo e nella contaminazione con l’altro nasca vera innovazione. Non si tratta di filantropia, ma di una strategia coerente e concreta di stare al/nel mondo. Lo confermano le logiche di relazione promosse nei decenni da Caimi con la rete dei fornitori locali che si tramanda di padre in figlio, e che innerva il territorio di fiducia, lealtà, amicizia, reciprocità, capitali indispensabili per superare insieme momenti di crisi o di emergenza.
Per uscirne vivi serve un pensiero intergenerazionale
In un Paese che, paurosamente, invecchia e incomincia ad interrogarsi su chi saranno gli eredi del patrimonio imprenditoriale, sono generative le imprese che stanno investendo nell’aprire spazi e opportunità per i giovani e promuovere virtuosi scambi generazionali.
Un’esperienza che sta facendo scuola è Loccioni, impresa tecnologica marchigiana, che ha sviluppato un vero e proprio ecosistema intergenerazionale con il fine di promuovere il territorio, ma anche garantirsi un portentoso vivaio di talenti: dai bambini delle elementari ai pensionati esperti, tutti possono entrare in relazione con l’impresa, contribuendo al suo sviluppo. “L’impresa per tutte le età®” vede l’interdipendenza di tre aree di sviluppo organizzativo: la Bluezone prevede percorsi personalizzati per gli studenti che vogliono imparare facendo. Tutta l’impresa è a loro disposizione per insegnare il lavoro come integrazione e progettualità intergenerazionale. Mentre si aiutano i giovani ad orientarsi nella scelta del proprio futuro, si costruiscono legami che durano nel tempo. Redzone è lo spazio dei collaboratori che, nella logica di Loccioni, sono “intraprenditori”, lavoratori della conoscenza che vivono il lavoro come sfida, progetto, innovazione e crescita. In questi anni 100 di loro ha avviato la propria impresa. E infine la Silverzone, una rete di oltre 120 persone over 65 di grande esperienza, scelti tra clienti e fornitori, che si mettono disponibili per nuove co-progettazioni intergenerazionali per il gusto di insegnare e di imparare dai ragazzi.
*Da soli non si cambia il mondo
Le imprese generative costruiscono relazioni solide con le scuole, con le università, con i fornitori, con i clienti. Costruiscono, insomma, comunità attorno alla risoluzione di questioni di natura sociale, ambientale culturale.
Un bell’esempio è quello offerto dalla Fondazione Antonio Lombardi. Il prêt-à-porter italiano ha visto l’ascesa di manager e artigiani straordinari, ma oggi molti di loro stanno andando in pensione senza un adeguato passaggio generazionale. Così, ispirata dal pensiero del sociologo Richard Sennett che vede l’artigianalità come un sapere prezioso, ma nella consapevolezza della fragilità di questa stessa conoscenza se non trasferita alle giovani generazioni, la Fondazione ha investito nella creazione di un’Accademia che si propone di rivitalizzare un piccolo segmento della filiera della moda italiana, quello delle competenze tecniche sul prodotto, che spaziano dalla confezione allo sviluppo, fondamentali per dare vita alle creazioni dei designer. La Fondazione mette a disposizione alcune borse di studio interamente finanziate per sostenere giovani con limitate opportunità economiche. L’Accademia propone un intenso programma formativo: per un anno, i giovani partecipano a laboratori pratici, dedicandosi all’apprendimento dell’intera filiera del tessile. Seguono sei mesi di stage presso grandi aziende del settore, divenute partner strategici. Ad oggi, tutti i giovani usciti dall’Accademia hanno trovato un impiego.
Altra esperienza di grande impatto è quella di Dallara, storica azienda della Motor Valley, che ha deciso di puntare sulla formazione a partire dall’incontro con un bisogno reale: la mancanza di manodopera specializzata nel settore dell’automotive. L’iniziativa di Dallara ha dato vita ad un’articolata filiera formativa promossa da un’alleanza pubblico-privato che vede accanto alle principali aziende dell’automotive, anche imprese del settore food, scuole, enti formativi e istituzioni locali, regionali e nazionali. Negli anni l’offerta si è ampliata e specializzata: dalle proposte laboratoriali per i più piccoli; agli incontri di esplorazione e sperimentazione per i più grandi, fino alla formazione superiore e universitaria orientata alla ricerca e all’innovazione in azienda e al reskilling per i collaboratori già attivi. La Dallara Academy è il luogo simbolo di questo investimento, uno spazio dedicato alla formazione in campo tecnologico, voluto fortemente dall’Ingegner Dallara a conferma del legame di riconoscenza verso il territorio.
*Una via per l’artigianato italiano?
Quando custodisce e trasmette un mestiere; quando crea e innova condividendo la conoscenza; quando sceglie la qualità alla quantità, la relazione alla transazione, il “fatto bene” al “fatto in fretta”; quando investe sul proprio territorio, l’artigianato è generativo.
Ma oggi serve un salto ulteriore: passare dall’agire individuale a una visione ed azione collettiva. Se connesse tra loro, le imprese artigiane possono porsi come rete generativa territoriale: aprire laboratori nelle scuole, accogliere giovani in formazione, progettare con gli enti pubblici, costruire filiere glocali (locali + globali) creative e sostenibili.
Artigiano è una parola che non può essere perduta. Non si potrà dimenticare che il lavoro manuale incorporato nell’artefatto unisce sapienza tramandata, intelligenza e maestria creativa; che l’etica del fare artigiano – nel dare vita alla materia – è frutto di una cultura di luogo, di un talento originale, di una unicità dei processi.
L’artigiania connota l’identità del nostro Paese, ed è il tratto generativo della tipicità italiana. È una delle storie di successo del Made in Italy ancora prima che lo si chiamasse tale: i suoi prodotti possono emigrare, ma non si disperdono perché restano nel tempo a testimoniare ingegno, cura, utilità. Il suo racconto è da riproporre e valorizzare perché concorre alla proiezione futura dell’Italia. Questo significa ritrovare un’idea di crescita integrale, relazionale e contestuale.
La generatività è un modo concreto di fare impresa. Un modo che rilega passato e futuro, tecnica e cultura, impatto economico e valore sociale. L’impresa generativa non è una bella teoria o una buona intenzione. Molte realtà italiane sono il segno visibile che è tutto vero. (di Patrizia Cappelletti e Riccardo Della Valle[1])
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[1] Riccardo Della Valle – Ha svolto la carriera al Credito Italiano e in UniCredit ricoprendo ruoli manageriali nelle relazioni sindacali, sostenibilità e csr, nei rapporti istituzionali con le comunità locali. È stato segretario della Società italiana di ergonomia-SIE e tra i promotori del Forum per la finanza sostenibile. È componente del segretariato dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile-ASviS e del comitato scientifico della Fondazione Symbola. Socio dell’Associazione Comm.On!, collabora alle attività del Centro ARC-Università Cattolica di Milano.

Patrizia Cappelletti
Laureata in Sociologia presso l’Università “Carlo Bo” di Urbino e Ph.D. in Scienze Organizzative e Direzionali all’Università Cattolica di Milano, è membro del Centro ARC (Anthropology of Religion and Cultural Change). Da alcuni anni i suoi interessi si concentrano sull’innovazione sociale e sulla generatività sociale in campo organizzativo, coordinando l’Archivio della Generatività Sociale. Svolge attività di ricerca, formazione e consulenza in ambito organizzativo.