1. A che punto è il lavoro nella transizione generazionale?

Il lavoro, storicamente, è sempre stato molto più che una semplice attività utile alla sopravvivenza materiale. È stato ed è, al tempo stesso, fonte di reddito, strumento di integrazione sociale, veicolo di riconoscimento, spazio di realizzazione personale e orizzonte di senso.
Oggi, nella fase di transizione generazionale che caratterizza le società occidentali, il lavoro si trova in una condizione di tensione profonda: da un lato, resta il principale dispositivo di inclusione e identità; dall’altro, appare impoverito, incerto, frammentato.

La nuova generazione che si affaccia sul mercato del lavoro si trova davanti a un paesaggio contraddittorio. I numeri raccontano già molto: in Italia, il tasso di attività si aggira intorno al 62%. Il numero di occupati ha superato la soglia storica dei 24 milioni. Ma il tasso di attività italiano rimane ancora inferiore alla media degli altri Paesi europei. Ma, più ancora che la quantità, il problema è la qualità del lavoro.

Negli ultimi decenni si è assistito a un progressivo svuotamento di contenuto del lavoro: salari stagnanti o bassi, contratti instabili, mansioni ripetitive e poco valorizzanti. La metafora della clessidra ben descrive la situazione che si è venuta a creare: nella parte alta del mercato, i lavori altamente qualificati e ben remunerati; in basso, lavori poveri, precari e mal pagati. Con la parte centrale – quella che storicamente costituiva la “classe media” – in forte riduzione.

A questo si aggiunge la persistente insoddisfazione. Una recente indagine Gallup mostra che, in Europa, soltanto il 13% dei lavoratori si dichiara ingaggiato, cioè motivato e coinvolto; un 15% si dice attivamente disingaggiato, ovvero apertamente ostile e alienato; il restante 72% vive il lavoro senza entusiasmo né partecipazione. Così, mentre il lavoro rimane indispensabile per la vita individuale e collettiva, esso appare incapace di generare appartenenza, identità e soddisfazione.

Questa crisi non riguarda solo l’organizzazione del lavoro, ma tocca più a fondo la dimensione simbolica. Il lavoro non è più il “grande racconto” che dava forma a un progetto di vita e di società, come nel Novecento. È diventato, per molti, un luogo di sfruttamento, ansia e precarietà. Il rischio di un’economia sempre più caratterizzata dalla rendita e dallo sfruttamento – più che dal lavoro – diventa concreto. Specie in Italia.

La digitalizzazione accentua questa tendenza. Da una parte, essa apre opportunità di flessibilità, lavoro remoto, nuove professioni; dall’altra, rende più instabili le carriere, più labili le identità lavorative e più fragili i confini tra tempo di vita e tempo di lavoro. L’incertezza, la confusione identitaria e l’ansia diventano componenti importanti dell’esperienza lavorativa contemporanea.

2. Una ricerca sui giovani: tre gruppi

Per comprendere a fondo la transizione generazionale, occorre guardare alle ricerche che indagano le percezioni e le aspirazioni dei giovani. Uno studio su scala nazionale ancora in corso individua tre gruppi principali.

Un giovane su cinque si colloca in una posizione relativamente solida, con un buon accesso a opportunità formative e lavorative che permettono loro di inserirsi in circuiti professionali.
Uno su quattro vive una condizione opposta, caratterizzata da precarietà e scarsità di opportunità. Intrappolato nell’incertezza, questo gruppo tende a isolarsi e a chiudersi.
C’è infine il gruppo più numeroso (due ragazzi su tre), che si caratterizza per una condizione che l’antropologo David Le Breton ha efficacemente definito di “biancore”: una sospensione identitaria, un vivere senza appigli solidi, segnato dall’ansia e dallo smarrimento.

Il “biancore” non è semplice apatia, ma esprime un vuoto di riferimenti, una difficoltà a immaginare il futuro. Si traduce in precarietà psicologica, ansia da prestazione, senso di non appartenenza.

In questo quadro, le aspettative dei giovani raccontano di un rapporto con il lavoro che si sta trasformando in profondità. Non si tratta più solo di guadagnare un reddito sufficiente, ma di avere accesso a un benessere in senso ampio: conciliazione tra turni e vita privata, relazioni significative, equilibrio psico-fisico.

Le nuove generazioni hanno un sistema valoriale diverso dagli adulti. E più precisamente:

  • Autonomia: poter decidere, avere margini di libertà e responsabilità, sentirsi parte attiva e non ingranaggi passivi.

  • Coinvolgimento e comunità: non essere soli, ma lavorare in ambienti collaborativi, con senso di appartenenza.

  • Sviluppo personale: apprendere continuamente, crescere, formarsi.

  • Senso: avere la percezione che il proprio lavoro contribuisca a qualcosa di utile, buono, bello.

Sono questi gli elementi che caratterizzano la sensibilità contemporanea, che unisce pragmatismo e ricerca di autenticità. I giovani non si accontentano di un lavoro “qualunque”: vogliono sentirsi riconosciuti, rispettati, coinvolti.

3. E il lavoro artigiano?

In questo scenario, la questione del lavoro artigiano assume una nuova rilevanza. Da un lato, esso sembra poter offrire risposte inedite a molte delle domande dei giovani; dall’altro, sono evidenti ambivalenze e difficoltà. Schematicamente, si possono individuare quattro snodi di attenzione.

Il primo riguarda il nesso tra lavoro manuale e digitale. Il lavoro artigiano custodisce un legame profondo con la concretezza: si lavora con le mani, con i materiali, con i corpi. Questo aspetto rappresenta un antidoto alla virtualizzazione digitale che rende il lavoro astratto e disincarnato. L’artigianato insegna un “saper fare” che è al tempo stesso tecnico e culturale: ogni prodotto porta in sé la traccia di una tradizione, di un apprendimento, di una competenza sedimentata.

Nello stesso tempo, però, l’artigianato deve dimostrare di non rimanere fermo: deve integrare le tecnologie digitali, dalla progettazione 3D al marketing online, dalla robotica collaborativa alle piattaforme di e-commerce. Il futuro del lavoro artigiano dipende dalla capacità di coniugare manualità e digitale, tradizione e innovazione.

Il secondo snodo riguarda la relazione tra autonomia e rischio. L’artigiano è, per definizione, autonomo. Decide, organizza, costruisce. Questa autonomia corrisponde a una forte domanda dei giovani di oggi, che non vogliono essere meri esecutori. Tuttavia, essa comporta anche un impegno che non è assicurato: bisogna saper investire, aggiornarsi, affrontare la concorrenza globale. Questa tensione si regge se il mondo artigiano non si presenta come un settore “a fine corsa”, ma un ecosistema vitale in grado di aprire nuove opportunità. Il ruolo delle politiche pubbliche e delle reti di collaborazione qui è evidente. L’artigianato, infatti, non vive isolato: prospera quando entra in relazione con territori, istituzioni, scuole, comunità.

Il terzo snodo riguarda la qualità delle relazioni in rapporto ai modelli organizzativi e alla degenerazione paternalistica. Il lavoro artigiano non produce soltanto oggetti, ma anche relazioni. La bottega, il laboratorio, il piccolo studio sono luoghi di trasmissione, di apprendimento reciproco, di dialogo con i clienti. In questo, l’artigianato incarna un modello di lavoro che integra economia e comunità. Tuttavia, ci sono anche le ombre: il coinvolgimento può diventare eccessivo, con orari lunghi e sacrifici personali. Inoltre, i modelli di proprietà e di successione delle imprese artigiane sono spesso fragili. Senza un ricambio generazionale, molti mestieri rischiano di scomparire.

Infine, lo snodo unicità/territorio. L’artigianato esprime sempre un’unicità: il prodotto porta il segno della persona che l’ha realizzato e del territorio da cui proviene. Questo è un punto di forza, perché risponde al desiderio contemporaneo di autenticità e di legame con l’ambiente. Ma qui si nasconde la tentazione del provincialismo: se non sa dialogare con i mercati globali, l’artigianato resta chiuso in nicchie troppo ristrette. La sfida è costruire filiere che valorizzino il locale in un orizzonte più ampio, promuovendo modelli sostenibili in relazione con il territorio.

4. Conclusione: un bivio generazionale

La transizione generazionale del lavoro si gioca dunque su un crinale sottile. Da un lato, il rischio che prevalgano sfruttamento, rendita, precarietà, alienazione. Dall’altro, la possibilità di costruire nuove forme di lavoro che uniscano realizzazione personale, senso comunitario, autonomia e sostenibilità.

Il lavoro artigiano, se reinterpretato e sostenuto, può diventare un laboratorio di futuro. Non come nostalgia del passato, ma come anticipazione di un modo diverso di produrre, di collaborare, di vivere.

I giovani, con le loro aspettative di benessere ampio, autonomia, apprendimento e senso, chiedono un cambiamento nel modo di lavorare. Un’aspettativa giusta che va ascoltata e accompagnata.
La sfida è trasformare il lavoro da luogo di ansia e smarrimento a spazio di riconoscimento e creatività. In questo sta il vero nodo della transizione: non basta “dare lavoro”, occorre dare senso al lavoro. Solo così la nuova generazione potrà sentirsi parte di un progetto comune, capace di affrontare le sfide del presente senza cadere nel biancore dell’ansia e della disillusione.
Una sfida che interpella il mondo artigiano, che può trarre dalla radice profonda della sua tradizione lo spunto per aprire una via di futuro.


Mauro Magatti

Mauro Magatti

Laureato in Discipline Economiche e Sociali all'Università Bocconi di Milano e Ph.D. in Social Sciences a Canterbury, è professore ordinario all’Università Cattolica di Milano. Sociologo, economista ed editorialista del Corriere della Sera, membro della Commissione Centrale di Beneficienza della Fondazione Cariplo, del Comitato per la Solidarietà e lo sviluppo di Banca Prossima e del Comitato Permanente della Fondazione Ambrosianeum. Dal 2008 è direttore del Centro ARC (Anthropology of Religion and Cultural Change)

SPIRITO ARTIGIANO

Un progetto della Fondazione Manlio e Maria Letizia Germozzi onlus

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