La misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali e datoriali che stipulano i contratti collettivi è uno dei temi più complessi e irrisolti del diritto del lavoro italiano. A distanza di oltre settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, resta ancora privo di un’attuazione organica l’articolo 39, nella sua seconda parte, che immaginava un sistema ordinato di registrazione dei sindacati e di certificazione della loro rappresentatività, così da conferire ai contratti collettivi efficacia generale.

 

Un disegno ambizioso, pensato per impedire proprio ciò che oggi costituisce la criticità maggiore: la frammentazione estrema della rappresentanza, la proliferazione di sigle senza consistenza reale e la diffusione di contratti collettivi e di enti bilaterali privi di basi effettive nella struttura produttiva e sociale del Paese.

Peraltro,  mentre l’articolo 39 resta lettera morta, altre norme costituzionali rimaste inattive per decenni hanno trovato finalmente un’applicazione. È il caso dell’articolo 46, dedicato alla partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili dell’impresa, che nel 2025 ha ricevuto attuazione grazie alla Legge n. 76/2025, originata da una lodevole proposta di iniziativa popolare promossa dalla CISL, che correttamente prevede la bilateralità quale strumento tipico di partecipazione nelle micro e piccole imprese.
Questo precedente dimostra che anche gli articoli più complessi possono essere attuati quando si crea una convergenza tra attori sociali, sistema politico e opinione pubblica.
Per l’articolo 39, invece, questa convergenza non si è ancora formata.

 

Negli ultimi trent’anni la frammentazione è esplosa

L’assenza di un sistema affidabile di misurazione della rappresentatività ha prodotto effetti profondi, soprattutto negli ultimi trent’anni.
La rappresentanza, sia sul lato sindacale sia su quello datoriale, si è frantumata in una miriade di soggetti, spesso privi di  radicamento territoriale, storia o base associativa concreta.

Il risultato è un panorama contrattuale estremamente disordinato, nel quale convivono:

  • CCNL stipulati dalle grandi organizzazioni storiche;
  • contratti collettivi firmati da sigle nate di recente e prive di rappresentanza effettiva;
  • enti bilaterali improvvisati;
  • soggetti che si presentano come “parti sociali” senza alcuna strutturazione reale;
  • contratti pirata applicati solo per abbassare i costi del lavoro e le tutele.

La situazione è diventata talmente grave da spingere il CNEL, che gestisce l’archivio nazionale dei contratti collettivi, a introdurre una distinzione interna senza precedenti: da una parte i CCNL applicati ad almeno l’1% dei lavoratori dipendenti di un determinato settore; dall’altra quelli che non raggiungono questa soglia minima di applicabilità.

Questa classificazione non ha valore normativo, ma rappresenta un criterio empirico che indica quali contratti hanno una base reale e quali, invece, sono espressione di sigle marginali, quando non del tutto inesistenti nel tessuto economico.

Un’altra selezione che a nostro parere potrebbe operare il Cnel conformemente alla normativa che regola l’archivio della contrattazione, attiene alla verifica della dimensione territoriale o nazionale del contratto depositato, per certificare se il contratto collettivo si applica solo in determinate località o aziende o in tutto il territorio nazionale.

 

Il terreno fertile per contratti di comodo e bilateralità artificiali

In questo contesto si sono moltiplicati episodi che mostrano chiaramente la distorsione del sistema. Molte delle nuove sigle sindacali o datoriali, prive di una base reale, cercano legittimazione attraverso:

  • la firma di contratti collettivi a costo e/o tutele ridotte;
  • la costituzione di sistemi bilaterali autonomi privi di storia e solidità;
  • richieste di convenzioni con enti pubblici, talvolta ottenute nonostante fragilità strutturali evidenti;
  • la diffusione di contratti che attraggono imprese solo perché economicamente più “leggeri”.

Si tratta di fenomeni che producono concorrenza sleale nei confronti delle organizzazioni realmente rappresentative, che quotidianamente impiegano migliaia di persone e risorse ingenti per offrire servizi reali: formazione, welfare, sicurezza, fondi sanitari e previdenza integrativa e che svolgono, a livello nazionale e territoriale, un’intensa attività di rappresentanza  su numerosi temi di carattere sindacale, economico, sociale, contribuendo non poco allo sviluppo del Paese, alla tenuta della democrazia e della coesione sociale.

 

Perché non basta “una regolazione costruita interamente per via legislativa”

Di fronte al caos, periodicamente emergono proposte di legge che, con impostazione dirigista, promettono di risolvere tutto con una norma centralizzata calata dall’alto.

Ma in realtà una regolazione costruita interamente per via legislativa si rivelerebbe inadeguata e persino controproducente.

Il nostro sistema delle relazioni industriali è fondato su ciò che Gino Giugni definiva “ordinamento intersindacale”: un equilibrio dinamico nel quale le parti sociali — sindacati e associazioni datoriali comparativamente più rappresentative — esercitano un ruolo primario.

La contrattazione collettiva, in Italia, vive di autonomia negoziale, di storicità dei soggetti, di presenza territoriale. Ma soprattutto di equilibri trovati per via pattizia.

Una legge che pretenda unilateralmente di definire chi è rappresentativo e chi non, finirebbe per minare questa architettura, ignorando la complessità dell’ecosistema.

Il legislatore può offrire cornici, strumenti e criteri generali, ma la misurazione effettiva deve essere costruita con e dalle parti sociali, attraverso meccanismi condivisi, verificabili e proporzionati.

Solo a valle di questo processo può essere utile una norma di legge che promuova e sostenga la volontà delle parti sociali.

Così come sarebbe del tutto controproducente rispetto agli effetti proposti, una legge sul salario minimo, che avrebbe come certa conseguenza quella di determinare le condizioni per la progressiva disapplicazione dei buoni contratti collettivi di lavoro (quelli che garantiscono, oltre al  salario adeguato, tutele e welfare), con un livellamento in basso dei trattamenti dei lavoratori, senza peraltro incidere minimamente sul contrasto al  lavoro nero e irregolare.

 

Misurare non basta: bisogna selezionare la qualità della rappresentanza

Un altro aspetto da non trascurare,  è che la sola misurazione della rappresentatività, che va fatta utilizzando criteri certi e verificabili,  non si esaurisce in un dato numerico o nella semplice diffusione applicativa di un contratto collettivo.

Ecco perché servono ulteriori criteri qualitativi, tra i quali:

  • storia dell’organizzazione;
  • articolazione territoriale diffusa e verificabile;
  • numero e caratteristiche delle imprese e dei lavoratori associati;
  • partecipazione ai tavoli istituzionali;
  • presenza di sistemi bilaterali consolidati ed efficienti;
  • capacità di erogare formazione, prestazioni e servizi;
  • governance trasparente.

Solo integrando quantità e qualità è possibile distinguere i soggetti realmente rappresentativi da quelli che vivono unicamente della firma di contratti.

 

La bilateralità come “modello”: il caso della Legge 92/2012

Se dovessimo interrogarci su quale ulteriore elemento, oggi, è in grado di arricchire una contrattazione di qualità, non potremmo che indicare la Bilateralità. La Bilateralità, in tutta la sua sostanza, è ogni un indicatore fondamentale della rappresentatività di un sistema di contrattazione collettiva.
Gli enti bilaterali veri — non quelli di comodo — erogano prestazioni di welfare ai lavoratori e alle imprese, sanità integrativa, previdenza complementare, sostegno al reddito, formazione e servizi complessi.
Sono sistemi che richiedono strutture solide, governance stabile e capacità amministrativa.

Un esempio emblematico di una legge che ha promosso la rappresentanza “di qualità” è indubbiamente la Legge 92/2012 (Ministro del Lavoro era Elsa Fornero), che per la prima volta ha riconosciuto alle parti sociali dotate di un sistema bilaterale “consolidato”, “quale quello dell’artigianato” (v. art. 3, comma 14)  la possibilità di gestire autonome forme di ammortizzatori sociali in alternativa al modello generale.
Su questa base è nato FSBA, oggi uno dei principali strumenti di integrazione salariale contrattuale, che copre un milione di lavoratori dell’artigianato in tutta Italia e che rappresenta un mirabile esempio di sussidiarietà.  Anche per questo la bilateralità, da un certo punto di osservazione, è oggi uno degli elementi in grado di dimostrare, nei fatti, chi è realmente rappresentativo e chi non lo è.

 

Un tema ormai  ineludibile

Il tema della rappresentatività è, dunque, ormai  ineludibile, e  non riguarda solo la selezione corretta del CCNL da applicare o il contrasto ai contratti collettivi ed agli enti bilaterali pirata.
È una sfida più ampia, che incrocia la trasformazione tecnologica, l’evoluzione dei mercati e dei settori produttivi; la necessità di rafforzare il welfare contrattuale; le nuove forme di impresa.

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Riccardo Giovani

Riccardo Giovani

Avvocato esperto in diritto del lavoro e sindacale è Direttore delle Politiche Sindacali e del Lavoro di Confartigianato Imprese.
Ha pubblicato volumi di manualistica del lavoro e monografie ed ha collaborato in riviste specializzate nel diritto del lavoro e nella amministrazione del personale.
Appassionato della montagna (è iscritto nella sezione del CAI di Popoli) e dello studio della storia.

SPIRITO ARTIGIANO

Un progetto della Fondazione Manlio e Maria Letizia Germozzi onlus

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