
«Viviamo un tempo che non assomiglia a nessun altro. Non è un’epoca di certezze, ma nemmeno un’epoca di puro caos. È piuttosto una stagione che potremmo chiamare “normalità del disordine”: una condizione in cui instabilità, shock improvvisi e cambiamenti accelerati convivono con la ricerca ostinata di continuità, di punti di riferimento, di forme di stabilità. È in questo scenario che si colloca il dibattito sull’intelligenza artificiale, e con esso la sfida più profonda: non solo capire cosa le macchine possano fare, ma comprendere come l’uomo voglia vivere in un mondo trasformato dalla tecnologia».
Non si tratta, dunque, di un dibattito astratto. L’intelligenza artificiale non è un’entità eterea che abita lo spazio digitale. È invece un fenomeno materiale, radicato in infrastrutture precise, in processi industriali e in catene di fornitura che coprono il globo. Dietro ogni algoritmo ci sono server che consumano enormi quantità di energia, centri dati che richiedono nuove reti elettriche, miniere che estraggono terre rare, fabbriche che producono chip in pochi luoghi del mondo. Parlare di IA significa, allora, parlare di geoeconomia, di rapporti di forza tra potenze, di nuove interdipendenze che ridisegnano la mappa del pianeta.
Questa materialità ci obbliga a guardare con attenzione alle scelte politiche ed economiche che si intrecciano al destino della tecnologia. Perché l’IA non nasce dal nulla: è il frutto di investimenti colossali, di competizioni industriali, di strategie nazionali. L’innovazione, così, diventa uno specchio della fragilità del nostro tempo. Siamo al centro di un processo che promette di cambiare ogni settore, ma che al tempo stesso apre nuovi squilibri, nuove vulnerabilità, nuove dipendenze.
«E qui, in questo scenario che sembra lontano dalle nostre botteghe e dai nostri laboratori, può entrare in gioco l’intelligenza artigiana. Non come elemento nostalgico, ma come controcanto indispensabile. L’artigiano conosce la materia, la plasma, la ascolta. Sa che il lavoro non è mai pura astrazione: è gesto, è pratica, è esperienza. Nell’epoca in cui tutto sembra smaterializzarsi, la lezione dell’artigiano ci ricorda che la creazione non può prescindere dal rapporto diretto con ciò che si trasforma»
Non dobbiamo immaginare l’artigianato come opposto alla tecnologia. Sarebbe un errore, una trappola romantica. La questione non è scegliere tra l’uomo e la macchina, ma costruire un equilibrio nuovo. L’intelligenza artificiale, se usata con consapevolezza, può diventare una lente che amplifica le possibilità del lavoro umano, senza sostituirlo. Può aiutare nella progettazione, nell’organizzazione, nell’accesso a informazioni complesse. Ma non potrà mai replicare la sensibilità di chi sa interpretare il contesto, prendere decisioni etiche, costruire relazioni di fiducia.
È in questo spazio che l’artigianato trova la sua nuova centralità. L’intelligenza artigiana – fatta di ingegno, di precisione, di capacità di innovare dentro la tradizione – diventa il contrappeso necessario a un mondo che rischia di farsi travolgere dall’accelerazione. Non si tratta di resistere al cambiamento, ma di guidarlo. Non si tratta di proteggere un’identità chiusa, ma di renderla generativa.
L’Italia, in questo senso, ha una responsabilità e una possibilità. Non possiamo illuderci di guidare le grandi piattaforme globali, né di dominare le filiere tecnologiche più strategiche. Ma possiamo custodire un sapere diffuso, fatto di migliaia di imprese, di territori che hanno saputo trasformare la tradizione in innovazione, di comunità che ancora oggi tengono insieme produzione e cultura. Possiamo essere un Paese che non subisce la tecnologia, ma la piega al proprio modo di vivere e di lavorare.
Il nodo cruciale diventa allora quello delle competenze. Perché l’artigianato non è solo manualità: è intelligenza che si forma con l’esperienza e con l’apprendimento. Le nuove generazioni devono essere accompagnate a leggere la tecnologia senza subirla, a usarla senza idolatrarla, a trasformarla in strumento di crescita. L’IA potrà generare valore solo se avremo persone capaci di interpretarla, di integrarla, di metterla al servizio di progetti concreti. È qui che si gioca la sfida educativa e culturale più importante.
In un tempo di disordine, la formazione non è un lusso: è il cuore della resilienza. Serve a dare direzione, a permettere che il cambiamento non diventi smarrimento. E serve a legare insieme due dimensioni che troppo spesso vengono contrapposte: l’innovazione e la comunità. Perché il lavoro non è solo produzione di beni, ma anche costruzione di legami, di senso, di appartenenza. L’intelligenza artificiale non può generare da sola questi valori: spetta a noi decidere come abitarla, come inserirla in un tessuto sociale che dia forza e significato alle persone.
«Il futuro, allora, non è un destino inevitabile tracciato dagli algoritmi. È un campo di possibilità. Un terreno instabile, certo, ma anche ricco di occasioni. Se l’artigianato saprà dialogare con la tecnologia senza farsi assorbire, se le comunità sapranno rinnovare il proprio capitale umano, se i territori sapranno valorizzare le proprie competenze distintive, allora l’Italia potrà trovare un posto originale dentro la nuova geografia mondiale»
È un compito difficile, ma non impossibile. Richiede lucidità e coraggio, capacità di visione e concretezza quotidiana. Richiede soprattutto la consapevolezza che la sfida non si gioca tra intelligenza artificiale e intelligenza artigiana, ma dentro la loro possibile armonia. Un’armonia che non elimina il disordine, ma lo trasforma in energia creativa.
Alla fine, ciò che conta non è ciò che le macchine potranno fare, ma ciò che noi decideremo di fare con le macchine. Non è la potenza degli algoritmi a determinare il futuro, ma la nostra capacità di orientarli secondo valori che riconoscono la dignità del lavoro e la centralità delle persone.
Per questo possiamo guardare avanti con fiducia. Non ingenua, non cieca, ma fiducia fondata sul riconoscimento delle nostre radici e sulla volontà di innovare. L’artigiano che plasma la materia con le sue mani, e che insieme utilizza gli strumenti digitali per ampliare il proprio orizzonte, rappresenta una metafora potente del nostro tempo. Ci ricorda che anche nell’epoca più incerta, anche dentro la normalità del disordine, possiamo generare futuro.

Alessandro Aresu
Consigliere scientifico di Limes – Rivista italiana di geopolitica. Esperto di scenari globali, economia digitale e geopolitica dell’innovazione tecnologica. Autore di numerosi libri e saggi, tra cui l’ultimo, Geopolitica dell’intelligenza artificiale (2024), ha dedicato gran parte della sua carriera all’analisi dell’impatto delle tecnologie emergenti sugli equilibri globali. Ha ricoperto per oltre dodici anni ruoli di consulenza e direzione presso istituzioni italiane e internazionali, tra cui la Presidenza del Consiglio, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il Ministero degli Esteri e l’Agenzia Spaziale Italiana. I suoi studi integrano prospettive tecnologiche, economiche e politiche, con un particolare interesse per le implicazioni industriali dell’intelligenza artificiale e per il rapporto tra innovazione digitale e sviluppo sostenibile.