Fra i tanti paradossi presentati in questo numero, quello demografico risulta essere tra i più interessanti e, allo stesso tempo, tra i più allarmanti. La preoccupazione, però, non nasce dai fenomeni demografici in sé, ma dalla mancata comprensione della situazione e dalla scarsa capacità di valutarla efficacemente.

Cominciamo da una semplice constatazione: affinché una popolazione cresca, in generale, le entrate (nascite e immigrazioni) dovrebbero essere superiori alle uscite (morti ed emigrazioni). In Italia, fino al 2015, nonostante il numero di morti fosse superiore a quello delle nascite (a causa della struttura invecchiata della popolazione), la popolazione continuava a crescere grazie all’immigrazione, che superava di gran lunga l’emigrazione, compensando così il saldo naturale negativo. Da alcuni anni, però, questo non accade più. Anzi, il processo di decremento demografico ha subito un’accelerazione a causa dell’aumento della mortalità durante la pandemia da COVID-19, della diminuzione delle nascite dovuta all’incertezza generata dalla crisi sanitaria e della riduzione degli ingressi per la minore mobilità internazionale.

Dal 2023 si osservano deboli segnali di ripresa delle immigrazioni, che però non riescono a compensare i flussi in uscita della popolazione come accadeva in passato. Il risultato? Anche nel 2023 si è registrato un calo della popolazione, sebbene meno marcato rispetto agli anni precedenti. La popolazione in età lavorativa continua a diminuire perché le nascite, che dovrebbero alimentarla, sono in calo da molto tempo. Allo stesso tempo, la popolazione in pensione aumenta, poiché nella terza età stanno entrando le generazioni nate prima degli anni ’70 (le generazioni del baby boom), che inoltre sopravvivono più a lungo rispetto al passato.

 

Un destino demografico inevitabilmente negativo per l’Italia, dunque? Forse no, qualcosa si può ancora fare. Per consentire al Paese di crescere economicamente, sono necessarie diverse azioni, non particolarmente difficili da attuare, ma finora ignorate dai decisori politici. Il punto centrale è che all’interno della popolazione in età lavorativa esistono ancora gruppi inutilmente esclusi dalla forza lavoro.

 

Il primo gruppo è costituito dalle donne. I tassi di occupazione femminile in Italia sono ancora lontani da quelli della maggior parte dei Paesi industrializzati. Da anni ormai, le ragazze superano i loro coetanei in termini di qualità e quantità dell’istruzione: tenerle fuori dal mondo del lavoro rappresenta un insostenibile spreco dell’investimento fatto nella loro formazione. Una mentalità tradizionale che vede le donne come potenziali madri e quindi non “affidabili” in termini produttivi porta a un mancato riconoscimento della loro capacità di gestire con successo carriere parallele (come lavoratrici, madri e assistenti). Inoltre, il divario retributivo tra donne e uomini è un chiaro segnale di questa mentalità antiquata, inaccettabile non solo in termini di equità, ma anche da un punto di vista economico.

Il secondo gruppo è quello dei giovani. In Italia, la percentuale di giovani che non studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione è ancora troppo alta. Invece di cercare colpe (individuali, familiari, istituzionali), sarebbe più utile riportarli al centro del processo produttivo attraverso un sistema scolastico più moderno, che permetta loro di scegliere con maggiore consapevolezza il percorso di studi, riducendo gli abbandoni e favorendo la transizione ai cicli di studio superiori. L’Italia ha una bassa percentuale di laureati rispetto ad altri Paesi industrializzati: per mantenere livelli di produttività competitivi, è necessario compensare la quantità con la qualità, investendo nelle giovani generazioni e potenziando il capitale umano attraverso la formazione.

Il terzo gruppo riguarda i giovani italiani con alta formazione che emigrano all’estero in cerca di migliori opportunità lavorative. Non riuscire a trattenere questi talenti, dopo un cospicuo investimento nella loro istruzione, è uno spreco che l’Italia non può più permettersi. Un brillante laureato deve poter ottenere un giusto compenso e una collocazione adeguata alle sue competenze.

Il quarto gruppo è rappresentato dai cittadini stranieri che vengono in Italia per lavorare. Una burocrazia lenta e la mancanza di politiche di inclusione ostacolano il loro inserimento nel mercato del lavoro e, spesso, li costringono alla clandestinità e al lavoro nero. I lavoratori immigrati hanno il vantaggio di essere giovani, in età lavorativa, di aver già completato un percorso di istruzione e, contrariamente a quanto si pensa, di godere generalmente di una salute migliore rispetto alla popolazione locale. Costituiscono, dunque, una soluzione immediata alla carenza di lavoratori in settori cruciali per l’economia italiana.

In conclusione, il paradosso demografico italiano non è solo una questione di numeri, ma il risultato di scelte politiche ed economiche che hanno trascurato il potenziale di alcune categorie fondamentali della forza lavoro. Donne, giovani, lavoratori altamente qualificati ed immigrati rappresentano una risorsa preziosa che, se adeguatamente valorizzata, potrebbe contribuire in modo significativo alla crescita economica e al riequilibrio demografico del Paese. Investire in politiche di inclusione, formazione e valorizzazione del capitale umano non è solo auspicabile, ma necessario per garantire un futuro sostenibile all’Italia, evitando che il declino demografico si traduca in un freno irreversibile per lo sviluppo.

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