Negli ultimi anni, le organizzazioni hanno affrontato un dilemma radicale: come generare nuove modalità di lavoro in un panorama segnato dalla compresenza di diverse generazioni e dal mutamento profondo dei paradigmi culturali?

 

La ricerca condotta in occasione di Open Jam, che ha coinvolto oltre tremila giovani under 30, ha messo in luce non solo la complessità delle aspettative generazionali, ma anche la necessità urgente di ripensare profondamente il significato stesso della generatività in azienda.

L’osservazione diretta e immersiva di questo gruppo generazionale, che abbiamo compiuto negli ultimi tre anni, ci ha portati a scoprire che per comprendere davvero bisogna abitare i territori culturali e sociali dei giovani. Non si tratta più di guardare a una generazione isolandola, ma di vivere la condizione speciale di “non appartenenza”, trovandosi ai bordi dei cambiamenti, là dove le idee si formano e le pratiche nuove emergono con forza. In questa posizione privilegiata, il nostro compito è diventato quello di sollecitatori, provocatori e facilitatori, capaci di suggerire sentieri alternativi e praticabili per le organizzazioni con cui lavoriamo.

Le differenze generazionali emergono chiaramente quando si passa dall’ideale al reale. I giovani coinvolti nei nostri workshop hanno mostrato di saper affrontare temi di rilevanza civica e sociale non attraverso grandi dichiarazioni, ma partendo dal concreto quotidiano: “il rispetto del tempo degli altri”, “evitare il pettegolezzo contro un collega”, o “la fiducia reciproca”. La loro generatività nasce dalla volontà di instaurare rapporti autentici e di creare condizioni lavorative che siano percepite come realmente vivibili, praticabili, felici.

La filosofa Svenja Flasspöhler, parlando di sensibilità contemporanea, ci aiuta a interpretare questo scenario: oggi assistiamo a un’accentuata sensibilizzazione del Sé e delle relazioni, che porta le persone giovani a un nuovo tipo di percezione della realtà lavorativa. Questo fenomeno è spesso frainteso dalle generazioni precedenti come fragilità o incapacità di adattarsi, ma in realtà rappresenta una richiesta precisa di autenticità e senso.

Questo movimento, che il filosofo Franco “Bifo” Berardi definisce “diserzione”, non va letto come un semplice ritiro dal mondo del lavoro, ma come una profonda riarticolazione del rapporto tra individuo e lavoro. Si tratta di un passo indietro per rivedere radicalmente le fondamenta delle nostre organizzazioni, non negando l’impegno ma reclamando un coinvolgimento autentico, che parta dalla volontà di creare significato e valore condiviso.

 

Durante Open Jam, emergono con forza cinque binomi, che sono le coordinate concettuali del futuro lavorativo: libertà/azione collettiva, equità/dignità, benessere/sviluppo, responsabilità/realizzazione, uguaglianza/distinzione. Non si tratta di semplici dicotomie, ma di tensioni generative, capaci di guidare la trasformazione organizzativa e individuale in modo creativo e significativo.

 

Le organizzazioni contemporanee devono quindi affrontare una sfida filosofica oltre che gestionale: creare strutture sufficientemente solide per sostenere l’azione collettiva, ma anche fluide abbastanza per permettere l’emergere di nuove possibilità. Tre livelli di intervento diventano essenziali in questa prospettiva: strutture di presenza, pratiche di riconoscimento e una nuova ecologia dell’apprendimento.

Le strutture di presenza devono consentire diverse modalità di partecipazione, valorizzando l’autonomia individuale senza frammentare il tessuto collettivo. Non si tratta di adottare una flessibilità fine a se stessa, ma di creare ambienti in cui le competenze possano circolare liberamente, anziché cristallizzarsi in ruoli fissi, e in cui il tempo non sia una gabbia ma una risorsa da gestire con consapevolezza.

Le pratiche di riconoscimento devono focalizzarsi tanto sul processo quanto sul risultato, creando spazi di dialogo aperti e sinceri in cui le critiche possano essere accolte come risorse di miglioramento. Occorre sviluppare sistemi di valutazione in grado di far emergere e valorizzare competenze inedite e spesso non riconosciute dalle tradizionali gerarchie aziendali.

Infine, una nuova ecologia dell’apprendimento deve ridefinire il rapporto tra esperienza e competenza, accogliendo l’errore come parte integrante del processo formativo. L’azienda diventa così un luogo di contaminazione e crescita reciproca, in cui diverse forme di conoscenza possono incontrarsi e influenzarsi, favorendo modalità di apprendimento non gerarchiche e realmente inclusive.

La concezione del tempo organizzativo cambia di conseguenza: non più lineare e finalizzato esclusivamente al raggiungimento di obiettivi predefiniti, ma un tempo fatto di possibilità multiple, in cui diversi ritmi coesistono e si alimentano a vicenda. I giovani coinvolti nell’indagine chiedono spazi di riflessione, apprendimento e sedimentazione delle esperienze, momenti essenziali per una crescita autentica, che il modello tradizionale di efficienza fatica ancora a riconoscere e valorizzare.

Guardare al mondo del lavoro attraverso gli occhi delle nuove generazioni significa dunque compiere una conversione del punto di vista tradizionale: la loro apparente diserzione non è una fuga, ma un potenziale inesplorato di creatività e rinnovamento. L’azienda del futuro dovrà essere una membrana permeabile, capace di accogliere e valorizzare nuove forme di presenza e generatività. Solo così si potranno aprire nuove strade di pensiero e di azione, offrendo a tutte le generazioni la possibilità di riscoprire il lavoro come luogo di autentica fioritura personale e collettiva.

© 2025 Spirito Artigiano. Tutti i diritti riservati.