
L’accostamento non sembri sacrilego: la generatività è l’elisir che accomuna sia le giovani coppie intenzionate a mettere al mondo un figlio, sia la propensione ad avviare una impresa. Sono due dimensioni esistenziali – la vivacità demografica e la vivacità del tessuto produttivo – in cui oggi si evidenziano rischi preoccupanti per l’Italia.
La crisi delle nascite – anno dopo anno battiamo nuovi record negativi e da quattro anni siamo precipitati sotto la soglia dei 400.000 nati – è confermata dai primi dati relativi al 2025. Già nei primi tre mesi di quest’anno le nascite sono diminuite del 7,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (e da gennaio la popolazione complessiva si è già ridotta di 13.000 unità). È evidente l’impatto dello tsunami demografico sui tassi di natalità delle imprese. In tutta onestà, bisogna ammettere che si tratta di un processo irreversibile, in assenza di significativi contributi dall’estero. Vediamo perché.
Il 2008 è stato l’anno dopo il quale è iniziata una fase di riduzione ininterrotta delle nascite. Rispetto ad allora, nel 2024 abbiamo registrato 206.000 nati nell’anno in meno (-35,9%). Se si considera che nello stesso arco di tempo le donne in età feconda (statisticamente, per convenzione, la popolazione femminile di 15-49 anni di età) sono diminuite di quasi 2,5 milioni (-17,9%), si comprende che circa due terzi delle nascite mancanti è da attribuire alla forte riduzione delle potenziali madri. Ciò significa che il processo di denatalità è destinato inesorabilmente a perpetuarsi anche qualora si riuscisse miracolosamente a invertire la traiettoria declinante del tasso di fecondità (oggi al minimo, con 1,18 figli per donna). Ciò non vuol dire che sia inutile investire risorse pubbliche nelle misure di sostegno alla genitorialità (sgravi fiscali strutturali e trasferimenti monetari, asili nido pubblici, congedi parentali più generosi, strumenti di conciliazione tra il lavoro e le attività di cura per le donne occupate) e in lungimiranti politiche giovanili (si pensi solo al problema della casa per le giovani coppie), per il semplice motivo che altrimenti ci troveremmo a commentare dati ancora peggiori.
Bisogna però soffermarsi su un effetto nascosto della denatalità, che finora non è stato sottolineato. All’immagine di una piramide demografica rovesciata, con una base (formata dalle coorti più giovani) che si assottiglia progressivamente e un vertice (formato dalle persone nella terza e quarta età) che invece si allarga sempre di più, si sovrappone perfettamente l’immagine di un imbuto dei patrimoni.
Meno nascite significano meno eredi, meno eredi significano eredità più cospicue.
Con quale effetto psicologico su coloro che sanno di essere destinatari di un atto di successione (appartenenti non solo alle famiglie abbienti, ma anche a buona parte della classe media patrimonializzata)? Gli effetti sono due.
Il primo effetto è una riduzione della propensione all’assunzione del rischio imprenditoriale (che si somma all’oggettivo prosciugamento del bacino di giovani in cui fermentano gli animal spirits della vocazione imprenditoriale che in passato hanno fatto grande l’Italia). Perché, se è vero che la concentrazione dei patrimoni rappresenta una rete di protezione per i tanti giovani che navigano a vista verso un futuro incerto e periglioso, è altrettanto vero che ciò determina una rottura del nostro modello di sviluppo tradizionale, con riferimento proprio a quel lievito vitale rappresentato dall’attitudine al fare impresa. Già nell’ultimo decennio (tra il 2013 e il 2023) i titolari e i soci d’impresa con meno di 30 anni si sono ridotti rispettivamente del 25,2% e del 40,6% per effetto della transizione demografica e anche a causa di una minore intraprendenza dei potenziali rentier.
Il secondo effetto dell’imbuto dei patrimoni è un inedito disincanto delle giovani generazioni verso il lavoro. Per accorgersene, basta tirare un bilancio dell’effervescente mercato del lavoro dell’ultimo anno, segnato da un numero record di occupati (più di 24 milioni) e dall’eccesso di domanda di lavoro rispetto all’offerta, ma non privo di paradossi. Ebbene, nel 2024 abbiamo registrato 352.000 occupati in più: +508.000 lavoratori dipendenti permanenti e -203.000 a termine, +508.000 a tempo pieno e -156.000 a tempo parziale, a cui sommare 47.000 lavoratori indipendenti in più. Tuttavia, più dell’80% dell’occupazione creata ha riguardato gli over 50 anni. Tra gli under 35 sono aumentati invece gli inattivi (+152.000). Perché i giovani rimangono ai margini del mercato del lavoro? Perché per loro il lavoro non possiede più l’aura dell’obbligo sociale. Anzi, è diventato socialmente accettabile dimettersi al buio, senza un piano B, o rifiutare un impiego ritenuto non gratificante economicamente o non esattamente in linea con le proprie aspirazioni. In altri termini, per loro il lavoro non rappresenta più un valore in sé, bensì solo un tassello dentro un mosaico più ampio: la propria vita. Non solo il lavoro ha perso, ai loro occhi, la forte carica identitaria che invece possedeva per le generazioni precedenti, ma soprattutto hanno interiorizzato la forte svalorizzazione del lavoro in corso da anni. Infatti, sacrificato sull’altare della competitività, in Italia il valore medio in termini reali di salari e retribuzioni risulta inferiore dell’8,7% rispetto al 2008, come ha calcolato recentemente l’Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro).
La scintilla vitale della generatività rischia dunque di affievolirsi, sia a causa dei processi strutturali in atto (la radicale denatalità), sia per effetto dei cambiamenti avvenuti nella sfera immateriale (l’immaginario collettivo delle giovani generazioni).
Che si tratti di mettere al mondo un figlio o di avviare un’attività economica individuale, parliamo di scelte esistenziali che oggi possono sembrare un azzardo inaccettabile a coloro che hanno maturato la consapevolezza scoraggiante di non vivere più dentro l’onda lunga dell’accrescimento economico e del miglioramento del posizionamento sociale. Se le cose stanno così, allora è meglio aspettare l’eredità, piuttosto che alzare la saracinesca di una nuova impresa.
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Massimiliano Valerii
Massimiliano Valerii è direttore generale del Censis. Dopo gli studi in Filosofia a Roma, si è dedicato alla ricerca sociale, economica e territoriale. È il curatore dell’annuale Rapporto sulla situazione sociale del Paese, pubblicato dal 1967 e considerato uno dei più qualificati e completi strumenti di interpretazione della realtà socio-economica italiana. È autore di La notte di un’epoca (2019), Il contagio del desiderio (2020) e Le ciliegie di Hegel (2022), tutti pubblicati da Ponte alle Grazie.