Uno dei settori di vertice del nostro sistema produttivo è certamente il comparto agroalimentare.
Noto per la sua qualità, il cibo italiano contribuisce a costituire la nostra identità di Paese e la nostra immagine insieme a come vengono percepiti gli abitanti, la cultura ed il nostro stile di vita.
L’accezione Made in Italy promuove un messaggio di eccellenza e di qualità, riconosciuto in tutto il mondo, capace di generare attrattività nei confronti dei prodotti cui viene apposta, in quanto, agendo sulla qualità percepita della merce, può arrivare ad orientare le scelte di acquisto.
Questo avviene tanto sul mercato interno quanto su quello estero.
L’approccio comunitario alla sicurezza alimentare
Nel primo assistiamo ormai ad una legislazione comunitaria orientata da decenni alla tutela del consumatore, dapprima con il tema della sicurezza alimentare diventato, dopo l’esperienza inglese degli anni ’80 con la c.d. mucca pazza, il primo requisito per le aziende agroalimentari: fornire la garanzia circa l’assenza di possibili effetti negativi sulla salute dei processi di produzione e dei prodotti finiti.
Negli anni il focus si è ampliato e, oltre a rispondere alla (legittima) preoccupazione dei consumatori rispetto al tema della sicurezza alimentare, sono stati affrontai dal legislatore europeo gli aspetti legati alla certificazione e rintracciabilità del prodotto, alla etichettatura (Reg. UE n.1169/2011), al monitoraggio e al controllo, fino alla configurazione della responsabilità dei produttori.
Cosa accade all’estero: contraffazione e Italian sounding
Sul mercato estero la ricerca del prodotto alimentare italiano, noto per le sue caratteristiche e perché legato ad uno stile di vita, come detto, ne ha determinato una crescente domanda. Tuttavia, tale domanda non ha solo aperto nuovi mercati ma ha anche dato vita a quel fenomeno negativo rappresentato dal c.d. italian sounding, fenomeno che consiste nell’attribuire ai prodotti agroalimentari un marchio, una immagine o una denominazione geografica che ne evoca l’origine italiana senza però avere alcun legame con l’Italia. Attraverso tale escamotage il pubblico si trova ad associare erroneamente il prodotto locale avente un marchio evocativo a quello autentico italiano (sono note le vicende legate al Parmesan (USA), al Parmesao (Brasile) e al Regianito (Argentina).
Per dare contezza del fenomeno, bastano alcuni numeri: il mercato dell’imitazione dei prodotti alimentari italiani all’estero vale oltre 60 miliardi di euro, di cui 6 miliardi di giro d’affari della contraffazione e 54 miliardi di fatturato dell’italian sounding e look alike.
Lo spazio occupato dai prodotti imitativi concorre a sottrarre valore al settore alimentare italiano ma allo stesso tempo dimostra il suo grande potenziale di crescita.
Da qui l’esigenza di evitare la commercializzazione di prodotti che possono indurre in inganno l’acquirente (con specifico riguardo alla riconducibilità di determinati prodotti a luoghi diversi rispetto a quelli di origine) e che hanno un impatto negativo sui produttori locali (in termini di concorrenza sleale circa la qualità e i prezzi).
La contraffazione e l’Italian Sounding costituiscono, infatti, una grave minaccia per la competitività e lo sviluppo del Paese procurando perdite economiche per il sistema produttivo e per lo Stato, danni all’immagine dei prodotti autenticamente Made in Italy, rischi per la salute e per la sicurezza dei consumatori, perdita di posti di lavoro e una riduzione degli investimenti in ricerca e innovazione.
Tralasciando in questa sede i diversi interventi legislativi succedutisi negli anni, giova concentrarsi sulla assoluta rilevanza del fenomeno e delle sue implicazioni, tali da portare ad istituire con L. n.99 del 23 luglio 1999 il Consiglio Nazionale per la Lotta alla Contraffazione e all’Italian Sounding (CNALCIS), organismo interministeriale con funzioni di “indirizzo, impulso e coordinamento delle azioni strategiche intraprese da ogni amministrazione, al fine di migliorare l’insieme dell’azione di contrasto della contraffazione a livello nazionale e della falsa evocazione dell’origine italiana”, ai sensi dell’ art. 145 del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 Codice di Proprietà Industriale (CPI), modificato dalla Legge 28 giugno 2019, n.58 di conversione del D. L. 30 aprile 2019, n. 34 recante misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi, c.d. “Decreto Crescita”.
Nonostante le meritevoli azioni ed indirizzi (legislativo, repressivo e preventivo) indicati dal Consiglio, resta la dimensione di un fenomeno che non accenna ad arretrare.
Dalla tecnologia arriva un freno alle contraffazioni
Probabilmente, una risposta di contrasto concreta possiamo trovarla nel grande tema della innovazione, nel quale va annoverato, per quanto qui d’interesse, l’uso della tecnologia nel settore alimentare, che permette di raggiungere un duplice obiettivo per il produttore: la razionalizzazione della propria attività e della organizzazione; la possibilità di mostrare trasparenza verso il consumatore, con notevoli implicazioni positive anche sotto l’aspetto concorrenziale.
Infatti, con la tecnologia (si pensi, ad esempio, alla blockchain) è possibile tracciare i prodotti dall’origine (materie prime) fino alla loro consegna; avere maggiore facilità e celerità in caso di richiamo dei lotti; una migliore gestione della filiera e della logistica, ecc. Quanto al consumatore (oggi attento ed informato) far valere – anche con una comunicazione diversa, implementata rispetto al contenuto obbligatorio dell’etichetta prescritto dal Rg. UE n.1169/2011 – la qualità (tracciata) ed unicità di un prodotto alimentare, magari artigianale, così differenziandosi dagli altri concorrenti.
Foto di Negative Space
Giuseppe Maria Giovanelli
Avvocato, esperto di diritto commerciale, proprietà industriale ed intellettuale, privacy e legislazione alimentare