E se provassimo a ribaltare la narrazione corrente da decenni, per cui il lavoro buono, desiderabile e rivolto al futuro è quello che si allontana il più possibile dalla manifattura? E se fosse vero anche il contrario: ossia che il lavoro manifatturiero, nella sua dimensione artigiana, partecipa pienamente di un’idea futura di lavoro libero, soddisfacente, pieno di senso, proprio nel momento in cui il vecchio concetto di lavoro tramonta?
Noi ci crediamo, non solo per passione personale verso il mondo artigiano, il senso del lavoro che incarna, i valori che custodisce e la forma di società che sostiene e promuove, ma per alcune ragioni oggettive.
La prima riguarda l’innovazione tecnologica, in particolare nella forma dell’intelligenza artificiale, strumento straordinariamente potente di organizzazione della conoscenza, che rappresenta, oltre a grandi opportunità, un’evidente minaccia verso l’assetto economico e occupazionale del sistema occupazionale dei servizi avanzati: se la rivoluzione dell’intelligenza artificiale avrà fra i suoi risultati una perdita dei livelli occupazionali “umani”, questa sarà prima e soprattutto rivolta a questo mondo.
La seconda ragione riguarda l’importanza della relazione tra lavoro manifatturiero e assetto sociale, in particolare nella relazione tra lavoro “buono” e prosperità della classe media. In un contesto di rapido invecchiamento della popolazione, di declino di molti territori della provincia, di perdita di potere d’acquisto della classe media e di progressivo restringimento della base produttiva del made in Italy, fino ad adombrare il rischio di deindustrializzazione, emerge chiaramente come il lavoro manifatturiero e il ripensamento di un’economia più di prossimità siano tutt’altro che un’utopia, quanto piuttosto un’opportunità concreta. Forse la nostra ultima speranza.
La terza ragione riguarda la riorganizzazione del lavoro in una società longeva, in cui l’aspettativa di vita cresce esponenzialmente, imponendo radicali ripensamenti del ciclo di vita normalmente tripartito di una persona (infanzia e formazione, lavoro, pensione): vivremo tutti più a lungo e in salute, dunque dovremmo lavorare per più tempo, non necessariamente svolgendo sempre la stessa professione, soprattutto se questa è nel terziario che si digitalizza sempre di più. Dovremmo guardarci attorno, magari per trasformare una passione nella nostra seconda o terza vita professionale.
Mentre il gioco del lavoro della conoscenza si fa duro, per certi versi anche selvaggio, ripensare al lavoro artigiano non come la semplice continuazione di, benedette, tradizioni familiari, né tantomeno come il rifugio di chi non riesce a svolgere un lavoro di concetto, non è un’utopia pensata da un’organizzazione di rappresentanza: è una realtà concreta.
Lo è sicuramente per Cesare, Pietro, Gabriela e Sara, quattro persone che, con percorsi assai diversi e modalità ancora più diverse, hanno deciso di dedicare la loro prima, seconda, anche terza vita professionale al lavoro artigiano, trasformando in lavoro le loro passioni.
Cesare Bonelli ha studiato management in Inghilterra e diretto una start-up tedesca, portandola in Italia. Giovanissimo, aveva raggiunto l’apice della sua carriera, ma era entrato in crisi di motivazione per la ripetitività del lavoro e il peso di un costante giudizio da parte dei superiori. Dopo un anno sabbatico, Cesare decide di cambiare vita: vuole lavorare con le mani e ama la cucina. Prima va a imparare in un grande ristorante milanese, ma la vita dei cuochi non fa per lui. Leggendo uno speciale del Gambero Rosso sui grandi panificatori ha l’illuminazione: farà il pane, anche se nella sua famiglia se n’è sempre consumato poco. Allora impara a fare il pane da uno dei migliori, Adriano del Mastro, artigiano eccelso di Monza, con la passione per trasmettere il mestiere, che ha imparato a sua volta da altri grandi. Qui apprende la tecnica, finché non decide di fare il grande salto. Il Forno di Lambrate a Milano, nel quartiere Città Studi, è diventato subito un punto di riferimento per la qualità artigiana delle sue produzioni e l’ossessione per le migliori materie prime. Il manager in crisi di motivazione oggi è un fornaio moderno e indaffarato, felice di aver ritrovato il senso del lavoro nello sporcarsi le mani.
Quello stesso senso del lavoro lo sta trovando nell’artigianato anche Pietro Castellini, da sempre appassionato di sport, in particolare di bicicletta, che nel 2019 si laurea in ingegneria aerospaziale al Politecnico di Milano. Da lì un salto tanto logico quanto prestigioso: Leonardo Elicotteri, il vertice della nostra industria aerospaziale. Ancora una volta, però, quella apparente tranquillità e sicurezza di un impiego così prestigioso fatica a soddisfare un animo inquieto, che mal sopporta gli orari stabiliti e i ritmi del lavoro di ufficio. Dopo soli tre anni, Pietro si licenzia da Leonardo Elicotteri e parte per un cammino a piedi, da Lourdes a Santiago de Compostela, un pellegrinaggio laico, per ritrovare le proprie motivazioni e capire cosa fare da grande. La bicicletta è però ancora lì, questa volta nella forma del corso di ciclo meccanica che APA Confartigianato Milano Monza Brianza e l’Accademia della Bicicletta tengono al velodromo Vigorelli di Milano, all’interno di quella straordinaria iniziativa per favorire la crescita del settore delle biciclette a Milano, che è la Bike Factory della Camera di Commercio di Milano Monza Brianza Lodi. Qui Pietro ha imparato a riparare biciclette; l’ingegnere in lui ha trovato un lavoro artigiano in cui mettere le mani e una nuova vita professionale ,all’insegna della fatica del lavoro, ma anche della libertà.
Sara Bosatelli invece, studi di ragioneria e , come tutti i protagonisti di queste storie, genitori non artigiani, sapeva benissimo da subito che cosa fare da grande: il gelato. Una passione che, dopo esperienze da dipendente in altre gelaterie, l’ha portata, nel marzo del 2020, ad aprire la sua piccola gelateria a Bergamo, di fronte allo stadio dell’Atalanta, dove la passione artigiana e la qualità sono evidenti. Mandorlacchio è stata la prima gelateria gluten free certificata di Bergamo: tutti i gelati sono ancora senza glutine, e c’è sempre almeno un gelato a basso indice glicemico, a riprova di un’attenzione non comune per prodotti buoni e sani, e molto creativi nelle materie prime e negli accostamenti.
L’artigianato come centro della propria nuova vita professionale si può però anche scegliere non facendolo direttamente, ma raccontandolo. Gabriela Giovanardi, imolese che vive tra l’Italia e gli Stati Uniti, è stata una modella e un’attrice prima di concludere gli studi in giurisprudenza e trovarsi di fronte al dilemma su cosa fare dopo. L’ha risolto brillantemente prestando volto, voce e curiosità a un’opera sistematica, molto innovativa ed efficace, di racconto della qualità del made in Italy da una prospettiva originale: la difesa del vero made in Italy artigiano come soluzione di qualità e sostenibile di fronte all’insostenibilità produttiva, ecologica ed economica dei grandi brand. I suoi video su TikTok e Instagram, dove ha più di 160.000 follower, raccontano soprattutto al pubblico americano come riconoscere e distinguere un made in Italy di qualità, legato a piccoli brand artigiani. Se l’affermazione delle ragioni dell’artigianato, e il racconto dei valori e della passione che continuano ad essere dietro il lavoro artigiano, sono cruciali per conquistare nuovi mercati e nuovi artigiani, il suo lavoro di racconto è straordinariamente prezioso e ne fa a tutti gli effetti un’artigiana ad honorem.
Quattro storie molto diverse, accomunate dalla scelta del lavoro artigiano (e del suo racconto) non come necessità né come tradizione, ma come passione per giovani che chiedono al lavoro un senso e una prospettiva ben superiori a quelli che oggi è in grado di assicurare il lavoro dipendente in un ufficio, per quanto considerato prestigioso e ben remunerato. Ovviamente non sono gli unici; molti altri hanno fatto scelte simili e, soprattutto, moltissimi potrebbero farle se incontrassero al momento giusto la possibilità di diventare artigiani sulla loro strada.
Per questo, due cose sono fondamentali.
Innanzitutto, la comunicazione, che non può essere però quella tradizionale, né per i canali né per i contenuti. Bisogna comunicare il senso del lavoro artigiano non solo nei luoghi dove normalmente si fa, né al target (i giovani che vengono da una famiglia artigiana o che scelgono la manifattura spesso perché considerati meno “dotati” per studi più prolungati) a cui normalmente ci si rivolge. Bisogna andare molto oltre, dalle famiglie borghesi della classe media ai lavoratori alle prese con un allungamento sempre più marcato della loro vita professionale, e magari marginalizzati da una digitalizzazione ben poco rispettosa dell’esperienza. Fondamentale è anche il coinvolgimento di modelli positivi ma raggiungibili, che permettano di dare forma all’inquietudine fino a farla diventare un progetto di vita.
Ugualmente importante è il tema della formazione, di nuovo non solo nei luoghi deputati, ma nelle scuole di base e nei licei, perché nulla ormai è più scontato, nemmeno che chi frequenta il liceo classico non diventi, felicemente, un calzolaio. Quello che dobbiamo comunicare è l’artigianato come attività d’impresa, che ovviamente comporta fatica e rischi, ma anche come reale opportunità di essere liberi, di disporre del proprio destino, di dare libero sfogo alla creatività, di non dover dipendere da organizzazioni gerarchiche ultimamente sempre meno comprensibili.
Gli elementi ci sono tutti, già, e questa storia lo testimonia. Serve continuare con sempre maggiore convinzione ed efficacia, con il racconto e la condivisione di valori ed esperienza, colti nella loro massima attualità. I nuovi artigiani lo fanno quotidianamente, anche grazie ai social, come parte del loro lavoro e a maggior ragione lo deve fare la più grande organizzazione che li rappresenta, rivendicando con orgoglio non solo il protagonismo del passato e del presente del made in Italy, ma soprattutto il suo futuro.
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Paolo Manfredi
Milanese, 50 anni. È consulente per la Trasformazione digitale, ideatore e responsabile del progetto Artibici e responsabile del Progetto speciale PNRR di Confartigianato Imprese. Ha studiato Storia contemporanea. Scrive di innovazione, politica e ristoranti. È autore di “L’economia del su misura. Artigiani, innovazione, digitale” (2016), “Provincia non Periferia. Innovare le diversità italiane” (2016) e di “L’eccellenza non basta. L’economia paziente che serve all’Italia” (2023). Da settembre 2019 cura il blog “Grimpeur. Scalare la montagna dell’innovazione inclusiva” sulla pagina web di Nòva del Sole 24 Ore.