
19 Dicembre 1974. Mentre il Club di Roma scopre “I limiti [planetari ndr.] della crescita” identificati dall’MIT di Boston, il mondo accoglie con stupore – e anche un pizzico di sospetto – Altair 8800, il primo personal computer commercializzato insieme al suo kit di assemblaggio fai-da-te per l’equivalente di appena €425,50. Non è solo l’inizio di una trasformazione destinata a cambiare la vita di miliardi di persone in meno di 50 anni. È anche la premessa per quello che gli appassionati di relatività considererebbero – a ben vedere – la più grande sperimentazione al mondo del paradosso dei gemelli.
“Una coppia di fratelli omozigoti viene selezionata per testare la linearità del tempo nello spazio. Ad uno dei due viene affidato il comando di una navicella capace di raggiungere la velocità della luce per circumnavigare la stella Wolf 359 – distante 7,78 anni luce dalla Terra. Al secondo, un compito apparentemente molto più semplice: attendere il rientro del compagno. Quasi 15 anni dopo, al rientro in atmosfera, le porte della navicella si aprono e tutti i presenti restano attoniti: l’astronauta rientrato dallo spazio è invecchiato 8 anni in meno del suo collega rimasto a terra!”
L’esperimento, pure molto efficace nel dimostrare la fallacia logica della teoria della relatività ristretta, è anche un’ottima metafora per descrivere gli effetti del tempo su un’altra coppia di gemelli: la transizione ecologica e quella digitale. Come mai queste due trasformazioni sembrano accelerare a un ritmo tanto diverso l’una dall’altra? Cosa spinge i mercati a nutrire tanto interesse verso la tecnologia digitale, nonostante le minacce che essa porta con sé (sostituzione uomo-macchina su tutte), e allo stesso tempo a resistere alla transizione sostenibile?
Alcune delle evidenze emerse dal recente studio “Radici nel Futuro” realizzato da TEHA e Chiomenti possono aiutarci a decodificare il perché di questa de-sincronizzazione e identificare le leve su cui un artigiano può contare per cogliere le opportunità imprenditoriali delle trasformazioni in atto.
Prima di cominciare, però, è bene condividere tre considerazioni di partenza:
- le due transizioni sono state alimentate finora da propulsori differenti. Una – quella digitale – prevalentemente market-driven, trainata da un crescente appetito dei mercati per le soluzioni tecnologiche; l’altra – quella ecologica –prevalentemente policy-driven, spinta (spesso in modo erratico) per decreto verso gli obiettivi delle agende politiche che si sono susseguite sui palcoscenici globali, generando in alcuni casi resistenze e opposizioni sia tra i consumatori che tra le imprese;
- le due transizioni – per dirla sempre coi fisici, questa volta quantistici – sono sistemi in relazione tra loro (entangled). Quand’anche si riuscisse a separarli, non potrebbero più essere descritti come due sistemi distinti. Quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce. In altre parole, non può esistere sostenibilità digitale senza digitalizzazione sostenibile.
- la competitività non può prescindere dall’evoluzione delle transizioni gemelle. Non solo queste sono legate a doppio filo alla produttività aziendale, ma presentano all’imprenditore anche rischi e opportunità sempre più consistenti, capaci di incidere sulla redditività d’impresa – pensiamo, ad esempio, ai risparmi annui (OpEx) che già oggi possono essere raggiunti attraverso l’elettrificazione e l’autoproduzione di energia rinnovabile oppure all’impatto crescente sulla resilienza degli asset dovuto ai disastri ambientali connessi ai climatici.
In una simile cornice, il sapere artigiano insegna una lezione fondamentale. I costi e i benefici del fare devono essere sempre confrontati con quelli del non-fare. Questo è ben chiaro, per esempio, per uno dei mestieri più antichi d’Italia – la moda – alle cui imprese è presentato oggi un bivio: investire in decarbonizzazione o rinunciare a volumi di fatturato 8 volte superiori nei prossimi 5 anni.
“Fare sostenibilità”, e farla bene, sembra portare con sé dei chiari benefici, anche al di là degli obiettivi politici sottesi alle nuove regole. Secondo un’indagine Unioncamere e Centro Studi Tagliacarne, le medie imprese per cui la sostenibilità rappresenta una fonte di vantaggio competitivo mostrano performance economiche migliori, con un fatturato superiore mediamente del 14,5% e un secondo margine che supera 61% quello dei competitor più scettici.
Questa relazione – non dimentichiamo il punto di partenza – è parte di un quadro più ampio; un dinamismo strategico che sintetizza la propensione a innovare, a investire in tecnologia e a sviluppare nuove competenze. Anche per questo, a parità di condizioni, i dati evidenziano che le PMI più sostenibili godono di un premio di produttività tra il 5,1% e l’8%.
Ecco allora che la transizione blu, anche grazie alla sua propulsione, si dimostra un alleato irrinunciabile della gemella verde. Solo tra le imprese italiane, il digitale potrebbe accrescere il valore aggiunto di oltre €61 miliardi (circa il 3,2% del PIL) dando “fiato” alle aziende per effettuare gli investimenti necessari in sostenibilità. Inoltre, allargando lo sguardo, le soluzioni tecnologiche già disponibili consentirebbero entro il 2050 di ridurre del 20% le emissioni globali nei settori più impattanti come l’energia, i materiali e i trasporti. Per non parlare dei nuovi modelli di business che queste soluzioni consentono di immaginare – linfa per un tessuto artigianale che ha fatto della creatività un marchio di fabbrica.
Non è un caso, quindi, che più di 1 su 2 tra le medie aziende italiane che nel pre-Covid hanno scelto di investire nella doppia transizione, oggi, registri livelli produttivi più alti rispetto alla crisi pandemica, e che invece la quota scenda a 1 su 3 se si considerano quelle che hanno investito in una sola delle due dimensioni o a 1 su 5 tra chi non ha investito. In questo contesto, la propensione all’investimento, che risulta meno accentuata nelle realtà a conduzione familiare, sembra aumentare per quelle imprese che hanno promosso percorsi di formazione dedicati.
Ciò non deve farci dimenticare però l’altra faccia della medaglia. Negli ultimi anni, l’impatto ambientale delle nuove soluzioni tecnologiche è cresciuto a ritmi senza precedenti. Basti pensare, ad esempio, che tra il 2018 e il 2022, il consumo di energia elettrica dei 13 più grandi operatori di Data Center al mondo è raddoppiato, fino a raggiungere i 460 TWh – un volume pari al fabbisogno elettrico annuale dell’intera Francia. Un discorso analogo interessa anche i nuovi sistemi di Intelligenza Artificiale generativa. Una risposta prodotta da Google tramite AI Overviews consuma 10 volte l’energia richiesta da una ricerca tradizionale: 3 Wh, ovvero quanto si consumerebbe stando al telefono per un’ora intera.
Ecco allora che, in un mondo caratterizzato da un crescente multipolarismo, dove la competizione tra Stati Uniti, Cina ed Europa per lo sviluppo di soluzioni vincenti (sostenibili e “tecno-diverse”) per gestire il cambiamento pare inasprirsi ogni giorno, è sempre più necessario e urgente risolvere il paradosso – o sciogliere il Trilemma – delle transizioni gemelle: come rendere la tecnologia accessibile, sicura e sostenibile, al servizio della competitività dei tessuti produttivi?
Se è vero che, pure a fronte di una minor propensione a investire in ricerca e sviluppo, il modello familiare tipicamente italiano è capace di produrre migliori output innovativi – questo almeno dicono i dati raccolti su oltre 26.000 imprese – allora i riflettori sul saper fare Made in Italy non possono spegnersi adesso.
Le imprese artigiane, specialmente quando guidate da famiglie, dimostrano di saper razionalizzare la burocrazia organizzativa e di farsi guidare da visioni di lungo termine. Il capitale socio-emozionale di questi progetti imprenditoriali, alimentato continuamente dalle relazioni che legano proprietà, dipendenti e comunità locali, stimola la creatività e la collaborazione. Rappresenta a tutti gli effetti un fattore di produzione a cui le grandi cordate internazionali non hanno accesso e che consente di sviluppare modelli operativi più snelli, efficienti e ottimizzati.
Insomma, le condizioni sembrano finalmente propizie perché il mondo artigiano si rimbocchi le maniche e trovi un suo modo di riportare le due gemelle sulla stessa orbita. Per farlo accadere ora serve combinare tre ingredienti:
- sfruttare le opportunità offerte già oggi dalla finanza pubblica, superando le complessità burocratiche per valorizzare i capitali allocati attraverso piani come Transizione 5.0;
- costruire delle alleanze territoriali pre-competitive per creare economie di scala di fronte a sfide chiave trasversali come il fabbisogno di competenze;
- sviluppare nuove forme di concentrazione per aumentare la competitività, la capacità di investimento e quindi la produttività.
Di Carlo Cici e Matteo Rimini*
*(Matteo Rimini, Professional | TEHA Group S.p.A. Specializzato in Lavoro e direzione d’impresa, ha maturato esperienza nel campo della sostenibilità. Ha ricoperto incarichi di docenza presso l’Executive MBA Business Innovation dell’Università di Udine e presso l’Executive Master in Behavioural Economics dello IULM di Milano).
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Carlo Cici
Laureato in Economia Aziendale con oltre 30 anni di esperienza in materia. Ha lavorato presso la Federazione delle Associazioni Scientifiche e Tecniche, il Centro di Valutazione d’Impatto Ambientale europeo, Deloitte, RGA, EY.