Sondare il rapporto tra i giovani e il lavoro, com’è cambiato nel tempo e quali sono i fattori che hanno determinato queste mutazioni. Il ruolo dei nuovi processi, la tecnologia, l’intelligenza artificiale. Le prospettive di sviluppo e, in questo senso, la “centralità dell’artigianato” per il Paese di domani. A rispondere alle domande di Spirito Artigiano è Paolo Boccardelli, professore Ordinario di Strategia d’impresa e direttore del centro di ricerca Strategic Change Università Luiss.
Professor Boccardelli[1], dal suo punto di vista, come è cambiato negli anni l’approccio delle giovani generazioni al lavoro?
“L’accelerazione dell’adozione delle tecnologie digitali ha sicuramente facilitato la transizione dalle tradizionali modalità di lavoro a modalità più flessibili e ibride, generando fenomeni di ripensamento degli equilibri tra vita lavorativa e vita privata. Anche la Pandemia da COVID-19 ha generato profondi cambiamenti nell’approccio dei giovani alla carriera, alle modalità di lavoro e delle aspettative personali. Non è un caso che oggi si parli della felicità come misura del benessere di un Paese, come alternativa al PIL. Viviamo l’epoca delle “Grandi Dimissioni”, in cui un sempre maggior numero di dipendenti sta rivalutando le proprie opzioni di carriera e decidendo di cambiare lavoro, e persino occupazione. Solo in Italia, le persone che hanno deciso di lasciare il proprio impiego nel 2022 sono oltre 2 milioni, oltre il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Nel primo semestre del 2023, secondo quanto dichiarato dall’Inps, in Italia abbiamo registrato 3,3 milioni di cessazioni. Da una recente indagine esplorativa emerge inoltre come con l’inizio dell’anno nuovo 1 italiano su 3 ha seriamente preso in considerazione l’ipotesi di cambiare lavoro. Sono cifre significative, che arrivano al 42% nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni. Le imprese vivono da vicino questo fenomeno di talent shortage e quindi sono chiamate a rispondere in maniera attiva questi cambiamenti, attraverso iniziative di employer branding che riescano ad attrarre, motivare e trattenere i migliori giovani talenti. Questo significa strutturare percorsi di carriera chiari, attuare modelli lavorativi flessibili, inserire percorsi di formazione per il reskilling e di rafforzamento della leadership, ma anche avere cura del benessere organizzativo. L’obiettivo è oggi di creare luoghi di lavoro che non siano solo più stimolanti ma anche più felici”.
Si è assistito, come qualcuno pensa, a una perdita di “valore” attribuito al lavoro in questi decenni?
“Più che di perdita di valore attribuito al lavoro, vi è nei giovani una visione nuova del “valore del lavoro” e quindi del ruolo che il lavoro deve avere all’interno di un più ampio percorso di crescita che prima di tutto è personale. Il lavoro rappresenta solo una parte dell’evoluzione del sé per i giovani ed è importante che sia di valore, che si configuri come un’esperienza arricchente. Secondo un recente studio della Commissione Europea , le difficoltà dei datori di lavoro nel trovare persone con le giuste competenze sono spesso legate alla loro incapacità di attrarre e trattenere i lavoratori per la “tensione lavorativa” ovvero criticità nell’ambiente di lavoro, e nell’organizzazione del tempo. Oggi i giovani vivono il lavoro come momento di apprendimento, si affacciano al primo impiego con un approccio culturale di “Learning by doing”. Hanno una minore rigidità rispetto al passato, alla nostra generazione che è stata poco incline al cambiamento e dove vigeva il motto “un’azienda e per sempre”. Oggi i giovani sanno che non resteranno per tutta la vita nella stessa azienda, ma soprattutto non avranno la stessa mansione per sempre perché il loro lavoro e il modo di lavorare cambierà. Per questo si aspettano di partecipare a percorsi di formazione interna, di apprendere lungo tutto il percorso di carriera, investono sulle proprie competenze manageriali partecipando anche a corsi di formazione post lauream. È un fenomeno di long-life learning che motiva il successo di piattaforme di formazione online, come Coursera. I giovani sono inoltre attratti da imprese che garantiscano un migliore welfare aziendale e ore di lavoro più flessibili che gli consentano di gestire anche la dimensione di socialità, che è un valore posto allo stesso livello di quello del lavoro”.
Le aziende, in tantissimi settori, denunciano una rarefazione di manodopera che rappresenta un deficit competitivo notevole. Al netto del profilo demografico – c’è oggettivamente meno forza lavoro – come si spiega questo fenomeno?
“Che in Italia il mercato del lavoro sia segnato da un importante mismatch è un fatto che è confermato dagli ultimi dati del database Excelsior- Unioncamere che ci dicono che a fronte di oltre 500 mila entrate previste nel mese di gennaio 2024, il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro interessa 250 mila assunzioni (49,2%). La motivazione è soprattutto la mancanza di candidati (al 31,1%). E si tratta di un dato in crescita: un anno fa le difficoltà di reperimento erano al 38,6%.
Ma il talento è oggi una delle risorse più scarse che abbiamo anche a livello globale, non solo in Italia. Secondo una recente ricerca di Korn Ferry, a livello mondiale 3 datori di lavoro su 4 hanno difficoltà a reperire i talenti di cui necessitano, mentre entro il 2030 più di 85 milioni di posti di lavoro potrebbero non essere occupati perché non ci sono abbastanza persone qualificate . Questo ha effetti importanti sulla produttività dei sistemi economici. Un recente rapporto della Commissione Europea evidenzia come a livello europeo il 28% dei datori di lavoro del settore manifatturiero segnali la carenza di manodopera come fattore di limitazione della propria capacità produttiva. Le ragioni sono da ricercare principalmente nella mancanza di competenze specialistiche, soprattutto STEM, da parte dei canditati. Le carenze sono particolarmente diffuse nei settori dell’edilizia, dell’assistenza sanitaria, della scienza, della tecnologia, dell’ingegneria e della matematica (STEM). E si prevede che la carenza di manodopera altamente e scarsamente qualificata aumenterà con l’avanzare della transizione verde e digitale .
Ma c’è anche un altro aspetto da considerare quando di parla di talent shortage che è il problema dell’invecchiamento della popolazione. In Italia, secondo i dati dell’ultimo censimento ISTAT, la quota di persone di 65 anni e più è pari al 23 %. Peraltro, a fronte della difficoltà delle imprese a reperire profili, in Italia ci sono oltre 5 milioni di giovani NEET tra i 15 e i 34 anni. L’Italia è il Paese UE con la più alta percentuale di NEET (23,1) contro una media europea dell’11,7%, e si tratta di un superiore anche alla media dei Paesi OCSE (12,6%).
In questa prospettiva, l’integrazione dei giovani che non lavorano e non studiano diventa un tema centrale di politica industriale: per far fronte a un bisogno di capitale umano abbiamo come imperativo quello di favorire l’inclusione sociale dei giovani e soprattutto dei NEET, generando in tal modo un circuito virtuoso tra inclusione, innovazione e crescita economica, attraverso la loro attivazione ed il loro ingaggio in adeguati percorsi formativi che riescano a funzionare da leva per ridurre il mismatch tra domanda e offerta di lavoro”.
In questo momento per rendere un settore come quello dell’artigianato più attrattivo agli occhi dei ragazzi, occorre trovare un giusto mix fra mestiere tradizionale e strumenti digitali (IA in primis) oppure orientarsi su altre strategie?
“L’artigianato è un settore centrale per lo sviluppo del nostro Paese, perché è parte integrante del nostro modello produttivo, basato sull’eccellenza manifatturiera e sul “bello e ben fatto” del made in Italy. Le performance eccellenti sui mercati internazionali dimostrano che il made in Italy ha saputo rinnovarsi nel tempo, creando continuità tra tradizione e innovazione, attraverso l’integrazione delle tecnologie digitali nelle produzioni tradizionali (penso ai filati tecnici, all’uso della blockchain e dell’IoT in agricoltura, ai materiali innovativi utilizzati nell’arredamento), ma al contempo mantenendo un forte ancoraggio con l’heritage e le tradizioni locali. È un percorso virtuoso che porta inevitabilmente anche all’adozione delle tecnologie digitali nelle imprese artigiane, per migliorare la loro capacità di disegno, di sperimentazione di nuovi modelli, di ottimizzazione dei processi interni soprattutto attraverso l’AI ed in particolare l’AI generativa. L’AI e le altre tecnologie digitali abilitanti di Industria 4.0, divengono quindi una leva per potenziare il valore che può essere generato dalle imprese artigiane: penso ai Chatbot per gestire le relazioni con i clienti, ma anche agli NFT per promuovere nuove modalità di fruire delle opere artigiane, attraendo nuovi segmenti di mercato in nuovi contesti digitali. Ma anche i sistemi di blockchain, che possono intervenire nella certificazione dei processi artigiani, tutelando la proprietà intellettuale, scoraggiando il falso “made in Italy” e preservando valore e saperi artigiani”.
Come ritiene possa avvenire l’integrazione tra intelligenza artigiana e intelligenza artificiale?
“Lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale sta avendo effetti trasformativi rapidi, che rafforzano il ruolo della tecnologia come piattaforma abilitante delle relazioni di mercato, e disegnano per l’industria europea e globale scenari di sviluppo in chiave cyberfisica, che saranno guidati principalmente dall’interazione uomo-macchina, e abilitati attraverso il potere degli algoritmi e l’economia dei dati. Il potenziale economico connesso all’AI è enorme: si prevede che le entrate del mercato mondiale per l’Intelligenza Artificiale cresceranno fino a oltre 1,5 miliardi di dollari da qui al 2030. Se guardiamo all’Italia, gli ultimi dati Anitec-Assinform indicano che nel 2022 il volume degli investimenti nell’AI ha raggiunto i 422 milioni di euro, e potrebbe arrivare a toccare i 700 milioni di euro nel 2025, con un tasso di crescita medio annuo del 22%. Sappiamo che l’AI consente alle organizzazioni di incrementare le loro capacità predittive, accelerandone i processi decisionali, e dando vita a ecosistemi intelligenti di mercato, capaci di adattarsi ai mutati contesti competitivi e ai cambiamenti esterni. È un fenomeno che viene potenziato dall’AI generativa, una tipologia di AI che va oltre la semplice creazione di contenuti, o la manipolazione di immagini e video. Un recente studio ha già identificato ben 350 applicazioni di business dell’IA generativa trasversali alle diverse industry, con enormi effetti trasformativi e vantaggi in termini di produttività e di generazione di valore. Secondo Bloomberg, il valore di mercato dell’AI generativa a livello mondiale in crescita esponenziale che potrebbe raggiungere gli 1,3 trilioni di dollari nei prossimi 10 anni, dai soli 40 miliardi di dollari nel 2022.
Da uno studio condotto di recente da McKinsey che ha coinvolto 1,684 manager nel mondo appartenenti a diversi settori emerge la crescente importanza dell’AI Generativa per i business: il 79% di tutti gli intervistati dichiara di aver avuto almeno un’esposizione all’intelligenza artificiale, per lavoro o al di fuori del lavoro. Il 22% dei manager dichiara di utilizzare strumenti di AI Generativa regolarmente nel proprio lavoro. Più di un quarto degli intervistati delle aziende che utilizzano l’IA afferma che l’IA generativa è già nelle agende dei loro consigli di amministrazione.
Ciò provoca un cambio di paradigma nei modelli organizzativi e di business, e accelera la richiesta da parte delle imprese di skills e professionalità nuove, dove a maggiori competenze tecniche si dovranno necessariamente affiancare abilità sociali e creative, per una gestione human centred della tecnologia stessa, e rafforzarne la capacità di generare valore sociale e di mercato. Come Centro di Ricerca, nell’Ambito dell’Osservatorio Look4ward sui trend del lavoro di domani, stiamo studiando da vicino l’impatto che AI generativa può avere sui modelli organizzativi e soprattutto sulla gestione delle risorse umane anche nei settori tradizionali ed a vocazione artigiana. A tal riguardo, occorre considerare l’intelligenza Artificiale non come un sostituto del lavoro umano, ma come una Aid – Human technology: una tecnologia a supporto dell’attività umana, che consente di liberare il personale da attività routinarie per concentrarsi su attività ad elevato valore aggiunto, con effetti rilevanti in termini di accrescimento della produttività e di gestione intelligente dei processi produttivi, a beneficio della qualità, della sicurezza e della generazione di valore sostenibile”.
Lei ha diretto per tanti anni la Business School della Luiss. Quando gli studenti approcciano al percorso di studi, che tipo di affacci lavorativi si immaginano una volta completato l’apprendimento?
“In Luiss si formano i manager e i leader d’impresa di domani, coloro che saranno responsabili della crescita e dello sviluppo del nostro Paese, generando valore non solo per gli stakeholder ma per la società nel suo complesso. Ed è quasi naturale che chi frequenta i nostri corsi si indirizzi verso una carriera manageriale in Italia o all’estero. Ma non solo in grandi imprese o importanti società di consulenza: i nostri studenti guardano con interesse anche alle opportunità nelle piccole e medie imprese e sono anche molto attratti dall’ecosistema delle startup innovative di cui spesso sono anche founder. Cerchiamo di trasferire oggi a quelli che saranno i manager di domani la capacità di guardare ai fenomeni di mercato con visione, di intercettarne le traiettorie di sviluppo futuro, di capire il valore della tecnologia come abilitatore di nuove formule di valore, affinché acquisiscano capacità di formulare strategie di crescita adeguate ad affrontare contesti di business in rapido e costante mutamento. Ma allo stesso tempo cerchiamo di sviluppare in loro il senso della leadership collaborativa, basata sul valore delle persone e sulla centralità del lavoro condiviso: è quello che definisco il valore del “Noi”, perché non si governa mai da soli: la crescita sostenibile appartiene ai leader che sanno essere inclusivi, responsabili e mostrare valori”.
[1] https://businessschool.luiss.it/faculty-research/faculty-index/docenti/paolo-boccardelli/
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Foto creata con l’ausilio dell’AI ChatGPT4
Federico Di Bisceglie
Dopo gli studi classici approda alla redazione de il Resto del Carlino di Ferrara, appena diciottenne. Nel giornale locale, inizialmente, si occupa di quasi tutti i settori eccetto lo sport, salvo poi specializzarsi nella politica e nell’economia. Nel frattempo, collabora con altre realtà giornalistiche anche di portata nazionale: l’Avanti, l’Intraprendente e L’Opinione. Dal 2018 collabora con la rivista di politica, geopolitica ed economica, formiche.net. Collaborazione che tutt’ora porta avanti. Collabora con la Confartigianato Ferrara in qualità di responsabile della comunicazione.