Se volessimo esibire la carta d’identità della produzione italiana di alimenti e bevande dovremmo innanzitutto elencare i dati fondamentali del valore economico generato. Eccoli: un fatturato pari nell’ultimo anno a 179 miliardi di euro, 60 mila imprese di dimensioni grandi, medie e piccole, 464 mila addetti, più di 50 miliardi di export. Il settore si colloca al primo posto tra i comparti manifatturieri italiani per volume del fatturato e al secondo posto per numero di imprese, per addetti e per valore delle esportazioni. Anche i dati relativi all’andamento del settore nell’ultimo decennio sono lusinghieri: il fatturato è cresciuto del 24,7% in termini reali, il valore dell’export è salito del 60,3%, gli addetti sono aumentati del 12,2%. A dimostrazione della forte integrazione della cultura artigiana nella filiera del cibo, bisogna sottolineare che il 62% delle imprese del settore è costituito da imprese artigiane (più di 37 mila) e che il 31% dell’occupazione è riferibile proprio a imprese artigiane (più di 145 mila addetti).
Se poi si allarga lo sguardo all’intera filiera del cibo italiano, dai campi alla tavola (considerando quindi nell’insieme i diversi attori della filiera: l’agricoltura, la produzione di macchinari, l’industria di trasformazione, la distribuzione e la commercializzazione dei prodotti, la ristorazione e gli altri servizi collegati) si raggiunge la ragguardevole cifra di 607 miliardi di euro di fatturato nell’ultimo anno, con 1,3 milioni di imprese e 3,6 milioni di addetti. Nell’ultimo decennio il fatturato della filiera è cresciuto del 12,0% in termini reali, gli addetti sono aumentati del 10,8%. Sono grandezze tali da poter considerare la filiera alimentare italiana un patrimonio nazionale, e la sua tutela e valorizzazione una questione senza dubbio di interesse nazionale.
Ma oltre alla contabilità economica, emerge con tutta la sua forza il valore sociale della filiera alimentare, che non è soltanto un colosso produttivo che genera valore economico e occupazione; né è soltanto un campione dell’export nazionale, capace di conquistare, come un alfiere del made in Italy, i mercati globali. La filiera incorpora, infatti, anche un prezioso valore sociale, perché i suoi prodotti rispondono a una molteplicità di bisogni – di tipo materiale e di tipo immateriale – dei consumatori. E così contribuisce al benessere psicofisico e alla qualità della vita degli italiani.
Se ci guardiamo indietro, possiamo constatare come in passato la produzione alimentare abbia svolto un ruolo storico determinante per il nostro Paese
Se ci guardiamo indietro, possiamo constatare come in passato la produzione alimentare abbia svolto un ruolo storico determinante per il nostro Paese. Ha accompagnato la corsa al benessere di massa di un ceto medio che si stava allargando sempre più, segnando la fine della scarsità e il raggiungimento dell’abbondanza, garantendo un’alimentazione nutriente e sicura per tutti, contribuendo (insieme alla diffusione delle norme igienico-sanitarie, ai progressi della medicina, alla sperimentazione di farmaci efficaci) all’innalzamento dei livelli di salute e all’allungamento dell’aspettativa di vita.
Un capitale reputazionale costruito nel tempo, dunque: un legame con gli italiani antico, profondo e duraturo, capace però di rigenerarsi nel tempo. Perché oggi la produzione alimentare garantisce la disponibilità di cibi che rispondono alla crescente articolazione soggettiva degli stili di vita e dei valori di una società che non è più la società semplice di ieri.
Si tratta innanzitutto di un volume rilevante della domanda interna: in Italia la spesa alimentare è pari al 16,6% della spesa per consumi complessiva delle famiglie: un dato superiore a quello che si registra in Germania (13,4%), in Francia (15,7%) e nella media dei Paesi europei (16,1%). E parliamo di un mosaico articolato della domanda. Certo, la dieta degli italiani è la versione nostrana della dieta mediterranea – non ci siamo fatti colonizzare da ondate omologanti provenienti dall’estero –, ma all’insegna della pluralità degli stili alimentari, della segmentazione soggettiva delle preferenze, della libertà di scelta del consumatore – fino a contemplare quel 7% di italiani che si dichiarano vegetariani e il 4% di vegani. Una composizione della domanda sfaccettata e pluralista, dunque, che disegna una mappa molto variegata, se poi aggiungiamo anche il segmento dei salutisti, ovvero coloro che, invece di sperimentare gastronomie nuove, pietanze e cucine differenti, invece di privilegiare il piacere della tavola e la ricerca della convivialità, sono attenti soprattutto agli impatti sulla salute di ciò che mangiano, e dunque nelle loro scelte si fanno guidare da questa regola. C’è chi segue una specifica dieta prescritta da un nutrizionista; c’è chi sospende, per un periodo limitato di tempo o in modo permanente, l’assunzione di qualche alimento, di propria iniziativa o su indicazione di un medico, perché risultato intollerante. E si pensi poi agli alimenti “plus”, addizionati di principi nutritivi (cereali arricchiti con le vitamine, latte con più calcio, yogurt con omega 3), e a quelli “senza” (senza zucchero, sale, lattosio, glutine). Si pensi ai prodotti biologici e a quelli a “km 0”, acquistati direttamente dalle aziende produttrici.
Alla polifonia degli stili alimentari corrispondono criteri soggettivi di acquisto all’insegna, ancora una volta, della personalizzazione
Alla polifonia degli stili alimentari corrispondono criteri soggettivi di acquisto all’insegna, ancora una volta, della personalizzazione. È il capitolo dell’accessibilità economica: l’articolazione dei prezzi dei prodotti alimentari consente infatti ai diversi gruppi sociali – ai diversi portafogli – l’approvvigionamento dei cibi, che continuano ad affluire puntualmente nei carrelli della spesa, nelle dispense e sulle tavole degli italiani. Pure nelle fasi di crisi, come nell’attuale congiuntura di alta inflazione, che causa l’erosione del potere d’acquisto dei ceti meno abbienti, la gamma differenziata dei prezzi favorisce l’inclusione, attraverso i consumi alimentari, dei gruppi sociali più vulnerabili, costituendo un sostegno di fatto al reddito reale delle famiglie di fronte alla fiammata inflattiva – in definitiva, si potrebbe parlare di una sorta di “welfare dei consumi”.
Va sottolineato, infine, il valore identitario incorporato dalla filiera del cibo, secondo un’accezione non meramente funzionalista dell’alimentazione. Siamo sempre più quello che mangiamo, potremmo dire. In una fase storica in cui le tradizionali leve di identità e appartenenza (ideologiche, politiche, religiose) hanno meno presa che nel passato, il cibo è diventato uno dei principali veicoli di espressione identitaria. Attraverso le scelte alimentari, milioni di italiani esprimono il modo in cui desiderano essere visti e riconosciuti dagli altri, e come vorrebbero che fosse il mondo. Sulla produzione alimentare si trasferisce allora anche un carico di aspettative che richiamano valori etici, immateriali, simbolici, con un’attenzione crescente per gli impatti non soltanto sulla salute, ma anche sull’ambiente. La reputazione sociale di un’azienda alimentare o di un prodotto è oggi esposta a uno scrutinio severo dei cittadini, che hanno accesso a una infinità di informazioni (a cominciare dalle etichette, che si pretendono trasparenti, con informazioni chiare e complete).
Che cos’è allora la filiera alimentare oggi per il nostro Paese? È la sintesi di tradizione e contemporaneità
Che cos’è allora la filiera alimentare oggi per il nostro Paese? È la sintesi di tradizione e contemporaneità. Tiene insieme una memoria enogastronomica forte e riconoscibile, la qualità delle materie prime e le eccellenze delle produzioni tipiche locali, il forte radicamento territoriale delle produzioni – espressione della straordinaria biodiversità dei territori italiani –, marchi prestigiosi e ritenuti affidabili, una ristorazione di successo, la capacità di portare l’italianità nel mondo (se si pensa al suo ruolo come ambasciatore all’estero del made in Italy e dello stile di vita italiano). La filiera alimentare ha fatto dell’italianità un valore indiscusso. E il cibo (di qualità, sicuro, salutare, che piace, accessibile economicamente) è la bandiera dello stile di vita italiano: un patrimonio identitario di cui essere orgogliosi, che ricade a pieno titolo nel perimetro dell’interesse nazionale.
Massimiliano Valerii
Massimiliano Valerii è direttore generale del Censis. Dopo gli studi in Filosofia a Roma, si è dedicato alla ricerca sociale, economica e territoriale. È il curatore dell’annuale Rapporto sulla situazione sociale del Paese, pubblicato dal 1967 e considerato uno dei più qualificati e completi strumenti di interpretazione della realtà socio-economica italiana. È autore di La notte di un’epoca (2019), Il contagio del desiderio (2020) e Le ciliegie di Hegel (2022), tutti pubblicati da Ponte alle Grazie.