Esiste un modo di concepire la transizione energetica che rischia di avere un effetto boomerang sul coinvolgimento della pubblica opinione nella difesa dell’ambiente.
Troppo di frequente segmenti della politica supportati da cosiddetti esperti dell’ambientalismo ideologico spingono sulla introduzione di leggi e norme senza tener conto della realtà, pensando di generare in tal modo processi irreversibili di cambiamento. Una parte significativa dei provvedimenti europei, soprattutto quando ha preteso di fissare scadenze fisse e non negoziabili, come è stato il voto del Parlamento di Strasburgo sulla fine dei motori a combustione interna fissata per il 2035, finisce con generare scetticismo e reazioni di segno contrario.
Si dimentica la realtà e crudeltà dei numeri, che, al contrario impongono costi e tempi della transizione molto più lenti e complessi e con ricadute dolorose
Trascurare questi aspetti finisce con il creare vuoti nei processi decisionali, disinvestimenti pesanti in settori chiave dell’industria energetica e ricadute pesanti sui consumatori.
È il caso delle politiche che riguardano il settore degli idrocarburi, dove è prevalsa una visione generalizzata che lo ritiene un mondo superato ed in via di estinzione; quindi, non meritevole di ulteriori attenzioni e soprattutto di investimenti per garantirne la funzionalità per i decenni in cui ne avremo ancora bisogno.
È evidente lo stupore e lo smarrimento fra gli analisti ed i consumatori, quando le periodiche impennate dei prezzi sembrano far crollare convinzioni e luoghi comuni radicati, mettendo in discussione la credibilità della stessa transizione.
Pensiamo all’impennata del prezzo del gas nel 2022 e 2023 causata dalla superficialità nell’analisi del sistema di generazione dei prezzi e la totale mancanza di governo del sistema che ha finito con dare carta bianca alla speculazione finanziaria.
Nelle ultime settimane è stato il turno dei prezzi della benzina, del gasolio e del jet fuel. Lo stiamo vivendo ogni giorno a quali livelli sono giunti benzina e gasolio per autotrazione ed i costi dei voli aerei.
Il problema non è solo italiano ma ha ormai una dimensione globale con caratteristiche diverse nei vari continenti.
Stati Uniti ed Europa stanno provocando la distruzione dei propri sistemi di raffinazione e garantiscono i flussi di approvvigionamento dei propri mercati attraverso l’importazione a prezzi sempre più alti di prodotti e semilavorati da altri paesi che sono in grado di produrli. Ovviamente, il rifornimento di benzine di alta qualità diviene ogni giorno più difficile ed a prezzi proibitivi
Eppure i dati pubblicati dalle varie fonti ufficiali mostrano un quadro chiaro ed allarmante.
La domanda mondiale di petrolio (o meglio di prodotti finiti) si aggira leggermente al di sopra di 100 milioni di barili/giorno. Per soddisfare questa domanda occorre produrre petrolio greggio al ritmo di almeno 100 milioni di barili/giorno. E questo, in qualche modo sta succedendo. Infatti, non stiamo affrontando una crisi di offerta di petrolio (inteso come materia prima) a livello mondiale.
Il problema che abbiamo davanti è che nessuno di noi usa il petrolio per i propri consumi. Nelle macchine mettiamo benzina o gasolio e negli aerei mettiamo jet fuel
Sembra una affermazione banale, lapalissiana, ma, purtroppo, i grandi analisti del mercato petrolifero sembrano ignorare questa elementare verità e parlano dei grandi sistemi e delle dinamiche geopolitiche che influenzano o potrebbero influenzare la produzione della materia prima chiamata petrolio greggio. Discussioni assolutamente brillanti ed interessanti, ma che non spiegano perché la benzina sta andando alle stelle e sembra proiettata a toccare picchi mai visti nella storia moderna del petrolio. Ripeto, in una situazione in cui c’è ampia disponibilità di petrolio greggio e non si può derivare l’aumento del prezzo della benzina da uno shortage di petrolio. Se mai è il contrario. L’alto prezzo dei prodotti spinge in alto quello del petrolio greggio.
È come se avessimo una diga con un lago pieno d’acqua, ma senza una sufficiente capacità di trasporto dell’acqua per farla arrivare in città. Avremmo eccesso di acqua a monte e siccità a valle. Invocare la mancanza di pioggia a causa dei cambiamenti climatici sarebbe solo ridicolo.
Le scorte commerciali mondiali di benzina presso i sistemi di raffinazione sono ai minimi livelli degli ultimi 10 anni e non c’è nessuna prospettiva che possano essere ricostituite in tempi utili per la campagna estiva. Bisognerebbe disporre di una capacità di raffinazione che semplicemente non c’è (più).
I dati più recenti ci informano che la capacità di raffinazione mondiale disponibile si aggira fra 83 e 85 milioni di barili/giorno, evidenziando uno shortage rispetto alla domanda globale di prodotti fra 15 e 17 milioni di barili/giorno. In particolare, i paesi OECD hanno perso 2 milioni di barili/giorno di capacità nel corso degli ultimi cinque anni. Ciò vuol dire che il petrolio che viene trasformato in prodotti finiti è soltanto 83-85 milioni di barili/giorno. Il resto rimane allo stato di materia grezza nelle scorte sparse in giro per il mondo. Le scorte galleggianti o viaggianti su navi petroliere sono altissime.
Altro che disquisire sugli effetti della crisi in Medio Oriente o sui pensieri reconditi dei paesi OPEC.
La richiesta da parte di molti politici e governati rivolta all’OPEC ed all’Arabia Saudita di aumentare la produzione di greggio, è fuorviante, solo un modo di deviare l’attenzione della pubblica opinione dalle loro precise responsabilità.
Disporre di capacità di raffinazione in cui trasformare il petrolio greggio nei prodotti finiti che servono al proprio mercato nazionale non è e non può essere una responsabilità dei paesi produttori, ma è una scelta strategica ed economica di ogni singolo paese.
L’Italia è stata per decenni il principale paese raffinatore d’Europa ed esportatore di benzina e gasolio verso i mercati redditizi del Nord Europa e del Nord America. Eravamo uno dei quattro HUB petroliferi del mondo, insieme a Rotterdam, Houston e Singapore. Eravamo decisivi nel determinare il prezzo dei prodotti petroliferi e potevamo garantirci i rifornimenti al più basso prezzo possibile. Ai fautori dell’Italia Hub del gas suggerisco di studiare questo periodo storico in cui l’Italia sapeva cosa e come fare per essere un hub di qualcosa
Tutto questo ormai è storia. Il nostro sistema di raffinazione è in crisi profonda. Non si registrano più investimenti significativi (a parte la manutenzione minima degli impianti esistenti) per garantire l’adeguamento alle nuove richieste di qualità dei mercati più redditizi. Ma di questo nessuno vuole parlare. Ci sia attacca alle statistiche in cui si mostra l’esistenza di un’ampia disponibilità di impianti senza informazioni sulla loro vetusta età e prospettiva di durata.
La situazione contingente che garantisce margini di raffinazione altissimi (a causa della mancanza di prodotti sui mercati mondiali) allontana nel tempo il momento della chiusura di molti degli impianti esistenti. Eppure, stiamo vedendo che si procede a ridurre la capacità esistente in modo surrettizio, chiamando la chiusura in modo diverso, ovvero come trasformazione in bio-raffineria. In realtà, si fermano tutti gli impianti di una raffineria, lasciando operativi solo uno o due impianti minori per processare delle biomasse.
Non si dice però che questa “trasformazione” ha finora comportato la scomparsa di 15 milioni di tonnellate di capacità a fronte degli 1,5 milioni di tonnellate di bio-raffineria rimasti, con una riduzione netta di 13,5 milioni di tonnellate, perse per sempre.
Impianti di altissima tecnologia, fermatisi a causa di incidenti, non sono stati più riattivati, come l’impianto EST di Sannazzaro che, fermatosi il 1° dicembre 2016, non è stato ancora riattivato. Non solo, ma nell’ultima presentazione del piano strategico, il 14 marzo scorso, il CEO Eni ha detto che sta pensando a “riconvertire la raffineria di Sannazzaro in bioraffineria”. Il che, tradotto in italiano, vuol dire la perdida di altri 10 milioni di tonnellate di capacità e la chiusura della più sofisticata raffineria italiana e cuore del sistema di approvvigionamento della pianura padana e dell’hinterland industriale di Milano e Torino. Un vero disastro nazionale.
Tutto questo non sembra interessare i politici, gli analisti e i giornalisti di questo paese. Piace sbizzarrirsi sulle filosofie riguardanti le strategie dell’OPEC o addirittura disquisire sulle connessioni fra crisi israelo-palestinese ed il prezzo del petrolio, derivando le variazioni del prezzo della benzina da questi scenari geopolitici. Dimenticando che la benzina si ottiene in raffineria e non dai paesi produttori di petrolio e che se non si dispone di sufficiente capacità di raffinazione, semplicemente la benzina non c’è. Ed allora bisogna importarla dai mercati internazionali pagandola ai prezzi alti a cui la spinge la competizione con tutti gli altri paesi che non ne hanno o non ne hanno a sufficienza.
Tuttavia, alcune cose sono cambiate nel panorama della raffinazione nazionale. In peggio, naturalmente,
Parliamo del silenzio assordante che copre la vendita dei due gioielli rimasti della raffinazione italiana, la ISAB di Priolo (Siracusa) e la Saras di Sarroch (Sardegna) alle due maggiori società di trading internazionali Vitol e Trafigura
Due eventi singoli all’interno di un quadro complessivo drammaticamente preoccupante. Le due società di trading potrebbero pure lasciare parte dei prodotti nel mercato italiano, ma solo al prezzo dei mercati più redditizi del mondo. Se l’Italia avrà bisogno di benzina e gasolio prodotti da Saras o da Priolo, dovrà pagarli al prezzo più alto al mondo in quel momento. E sta già succedendo.
Occorre una riflessione più approfondita che ci faccia capire se siamo di fronte ad una de-responsabilizzazione collettiva o se è prevalsa una visione sul futuro dell’energia nazionale che si ritiene possa fare almeno del petrolio (come si è pensato di poter fare con il gas russo).
Non ci rimarrà che fare del populismo spicciolo contro i paesi OPEC e l’Arabia Saudita o cercare di convincere i consumatori dei legami inesistenti fra le crisi in Medio Oriente o in Ucraina ed il prezzo della benzina. Ma guai a dire che abbiamo adottato una politica energetica suicida e che stiamo continuando a distruggere il nostro sistema di raffinazione nazionale, nell’indifferenza generale.
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Salvatore Carollo
Autore di "C'era una volta il prezzo del petrolio" (Scheiwiller, 2008) e di "Understanding Oil Prices: A Guide to What Drives the Price of Oil in Today's Markets" (Wiley 2012). Ha sviluppato la sua carriera in Eni nel settore del trading di Oil & Gas ed è stato lecturer in Eni Corporate University. Salvatore Carollo scrive correntemente in riviste specializzate in materia energetica ed è spesso chiamato come speaker in conferenze internazionali. A fine 2015 è rientrato da Londra, dove ha passato gran parte della sua carriera.