La colonnina di mercurio dell’inverno demografico tocca temperature preoccupanti. Qui su Spirito Artigiano è un tema che abbiamo cercato di sviscerare a più riprese e attraverso numerosi contributi qualificati (qui). Il punto di partenza per prendere coscienza del reale impatto che il saldo demografico negativo ha sulla nostra società è quello di identificarlo come un problema prima di tutto economico. Questo colpisce pesantemente le nostre imprese e ne mina la competitività. La mancanza di manodopera che le aziende – più o meno trasversalmente – stanno riscontrando è solo uno dei riverberi negativi prodotti dal calo demografico.
Al netto delle misure che la politica dovrebbe mettere in campo per invertire questo trend, anche sul fronte delle imprese si può, anzi, si deve fare qualcosa. La prima sfida da vincere, in questo senso, è quella di rendere il lavoro più attrattivo per le giovani generazioni sforzandosi peraltro di uscire dal luogo comune che i ragazzi non abbiano voglia di impegnarsi in qualcosa che li possa in qualche modo soddisfare. Evidentemente anche sotto il profilo economico. Le imprese artigiane, in questo senso, possono essere «il grande laboratorio di questa rivoluzione». Ne è convinto Antonio Polito, editorialista e firma di punta del Corriere della Sera che recentemente ha trattato questi temi e che ha approfondito proprio su Spirito Artigiano.
Polito, la mancanza di manodopera è un problema serissimo per le imprese, che talvolta rischia di mettere in discussione intere fette di mercato. Forse è riduttivo pensare che tutto questo sia riconducibile unicamente al calo demografico.
«Ci sono molti fattori che concorrono a generare questo annoso problema. Da qualche tempo, per lo più dopo l’ondata pandemica, ci siamo resi conto di una crescente manodopera in diversi ambiti produttivi. Ora non siamo al punto in cui manca manodopera specializzata, fattore attribuibile in parte a deficienze del nostro sistema formativo e a una scarsa capacità del mondo accademico di saper orientare i giovani verso le opportunità lavorative. Ci troviamo invece in una situazione nella quale c’è una carenza di manodopera anche in settori nei quali non sono richieste particolari competenze. Ma non dobbiamo sottovalutare il fatto che manca la ‘materia prima’. Ossia mancano i giovani (e non solo)».
Che proporzione ha questo fenomeno?
«Le stime dicono che, nel corso degli ultimi cinque anni, siano ‘mancati’ al mercato del lavoro ben 750 mila persone in età compresa tra i 14 e i 65 anni. Gli occupabili sono in drastico calo. E questo significa che il nostro sistema Paese sperimenta, in maniera drammatica, le conseguenze dell’inverno demografico. Fino a oggi, nell’immaginario collettivo e agli occhi dell’opinione pubblica, si è pensato che questo fenomeno impattasse esclusivamente sul piano pensionistico. Invece, evidentemente, le conseguenze più pesanti si registrano proprio nel mondo del lavoro e delle imprese».
Recentemente lei ha scritto che i giovani cercano anche condizioni di lavoro migliori e che, in termini valoriali, l’impiego non è più necessariamente al primo posto. Di questo evidentemente deve tenere conto anche la parte ‘datoriale’. Come approcciare a queste nuove esigenze?
«E’ del tutto normale che i giovani ambiscano a condizioni di lavoro migliori, specie in un momento storico in cui la ‘gig economy’ ha moltiplicato le forme di impiego sottopagate. Il caso dei rider è emblematico sotto questo profilo. Una forma di nuovo schiavismo, esattamente come è successo agli albori della Rivoluzione Industriale nelle fabbriche inglesi e non solo. Ma la questione è ancora più complessa, in termini valoriali e di considerazione del lavoro in sé da parte delle giovani generazioni. Chi, venticinque anni fa, è entrato nel mondo del lavoro, considerava l’impiego una pre-condizione per una vita soddisfacente. Oggi questo non esiste sostanzialmente più. Il lavoro deve essere compatibile con una buona qualità della vita. Tra l’altro è completamente saltata l’idea di una carriera innovativa in un unico posto. I giovani, insomma, hanno interiorizzato il concetto della flessibilità. Non ci sono più i giovani che cercano il lavoro in senso stretto, ma una vita soddisfacente data da una forma di reddito che la permetta».
Il lavoro ha cambiato forma anche nelle sue modalità. A questo proposito, molto si discute sull’opportunità di concedere lo smart-working (chiaramente applicandolo laddove è possibile). Che idea si è fatto lei?
«Dopo il lockdown, milioni di italiani hanno apprezzato i vantaggi del lavoro da casa ad esempio. Ma oggettivamente, non è qualcosa di praticabile in tutti i settori. Resta il fatto che è difficile tornare indietro: quando, ad esempio, una giovane mamma si è resa conto di poter essere egualmente produttiva pur stando a casa con il proprio bambino, ritengo abbia poco senso tentare di riportarla in ufficio. Serve una proiezione sul futuro del mondo del lavoro e, soprattutto, bisogna in qualche modo renderlo più attrattivo. In questo un ruolo centrale lo deve avere lo Stato ad esempio applicando una defiscalizzazione per le imprese, ottenendo un taglio significativo al cuneo e avendo come risultato salari più alti e aziende con minori spese. Il che si traduce nella maggiore capacità assunzionale. E gli imprenditori si devono comportare di conseguenza. Penso che l’artigianato possa essere uno straordinario laboratorio di innovazione del mondo del lavoro».
Le imprese artigiane riusciranno a essere più attrattive?
«Penso ci sia uno straordinario potenziale. Già tanti sono gli esempi di artigiani che hanno modernizzato le loro produzioni, sfruttando ad esempio le nuove tecnologie. Un aspetto senz’altro non secondario per attrarre i giovani. Non solo: l’artigianato, per sua natura, ha una forte componente di capitale umano, di creatività. Proprio questa creatività lascia molta autonomia al lavoratore, altro aspetto tutt’altro che marginale. E’ un settore adatto all’innovazione, che può praticare la flessibilità e ottenere risultati straordinari in termini produttivi. Insomma, l’artigianato, in questo senso, può davvero essere l’apripista per una ‘rivoluzione’ nel mondo del lavoro».
Federico Di Bisceglie
Dopo gli studi classici approda alla redazione de il Resto del Carlino di Ferrara, appena diciottenne. Nel giornale locale, inizialmente, si occupa di quasi tutti i settori eccetto lo sport, salvo poi specializzarsi nella politica e nell’economia. Nel frattempo, collabora con altre realtà giornalistiche anche di portata nazionale: l’Avanti, l’Intraprendente e L’Opinione. Dal 2018 collabora con la rivista di politica, geopolitica ed economica, formiche.net. Collaborazione che tutt’ora porta avanti. Collabora con la Confartigianato Ferrara in qualità di responsabile della comunicazione.