La grande trasformazione in corso da circa quarant’anni nel capitalismo mondiale pare sia giunta a una sua nuova configurazione. Spieghiamoci meglio, prendendo per riferimento il capolavoro di Schumpeter Capitalismo, socialismo e democrazia. In quel capolavoro si prevedeva la trasformazione della forma democratico-costituzionale à la Constant-De Staël, alveo costituzionale consustanziale al progredire dell’impresa nel mercato, in forme statuali politico-autoritarie per consentire la pianificazione da economia diretta, così da sostenere la trasformazione del mercato in forma idonea a sostenere l’impresa poliarchico-monopolistica: le big corporations.


Ma questo modello non prevedeva che, invece della centralizzazione capitalistica planetaria à la Hilferding, si sarebbe opposto, nella Seconda guerra mondiale, il contrasto imperialistico con la creazione post-bellica dell’economia diretta oligopolistica del capitalismo misto dei gloriosi trent’anni. In quel capitalismo, ormai alle nostre spalle, l’oligopolio con progresso tecnico à la Sylos Labini era sì sempre più possente, ma via via colpito — come magistralmente previsto da Baran e Sweezy grazie all’analisi del capitalismo anglosferico — dalla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto.

Così accadde quando l’accordo di Bretton Woods, con la crisi petrolifera, venne meno. La reazione fu quella della creazione delle corporations ad alta leva finanziaria con collateralizzazione dei debiti.

Iniziava così, alla fine degli anni Ottanta del Novecento, il mondo in cui oggi siamo ancora immersi. Iniziava il mondo in cui stiamo sprofondando nelle paludi delle guerre: l’era clintoniana-cardosiana-dalemiano-blairiana-hawkiana (perché tutto iniziò in Australia, lo si ricordi sempre…), in primis celebrata in quel fiorentino Salone dei Cinquecento a Firenze nel 1989, dove si decretò l’inizio della centralizzazione capitalistica, chiamata globalizzazione, con la fine del welfare state, l’inaugurazione della regressione neoclassica da scuola austriaca, che avrebbe portato alla dissoluzione sociale oggi in corso, con reazioni post-populistiche-jingoiste che nel trumpismo trovarono e trovano la loro forma politica essenziale.
Ecco Trump numero uno, e ora il suo “grande ritorno”, con bande armate, assalti ai Parlamenti, rottura del bilanciamento dei poteri costituzionali USA.

Mentre questa dissoluzione-trasformazione capitalistica s’inverava, l’URSS crollava definitivamente tra mille orrori, e quel nuovo capitalismo finanziarizzato trovava il suo profilo come destino politico del mondo, prima che economico, anche nella Russia putiniana. Russia divenuta terra di oligarchi, di un capitalismo di guerra da nazione minacciata di depredazione e da estinzione — secondo le teorie dei teorici putiniani della Russia come potenza euroasiatica sempre minacciata da invasione.
Nessuno tenne conto di ciò nell’ignoranza dilagante, in primis nell’UE, e si accumularono i venti di tragedia e le zanne dell’orso. Di qui le ricorrenti spinte aggressive e imperialiste dei nuovi zar.

Insomma, in trent’anni ha preso forma una nuova configurazione dei capitalismi mondiali, che ha trovato solo con la guerra inter-imperialistica tra l’anglosfera, le potenze jagelloniche baltiche e la Russia il suo pieno inveramento.

 

Le potenze capitalistiche indopacifiche guardano alla Cina e alla Russia tanto con rispetto quanto con paura, disorientate dal costante ritiro strategico degli USA dall’arena mondiale, come ha dimostrato l’Anabasi — non di Senofonte, ma la ritirata USA dall’Afghanistan — che ha lasciato tutte le “potenze di mezzo” indopacifiche tra il terrore e lo stupore.

Non solo l’inverazione storico-generale, ma la consacrazione politica di questo nuovo grande capitalismo da corporations da guerra è stata resa possibile per la disgregazione ormai irreversibile del comunismo internazionale e l’inveramento di un neo-socialismo di mercato liberale mai visto prima d’ora. Esso si fece — e si fa ancor più oggi stolidamente teorizzatore (i meriti, i bisogni e altre stranezze…) — della più feroce pratica della disuguaglianza sociale come mai s’era prima inverata sulla faccia del pianeta.

Ma, di converso, e nell’insieme, un altro grande fenomeno sommuoveva e sommuove il corpaccione dei capitalismi mondiali: il proliferare della piccola e media impresa, sospinta a emergere à la Chjanov dalla forza della comunità e della società naturale, della famiglia nucleare o allargata che sia, come è tipico dell’impresa artigiana.

 

Tutto aveva già previsto una delle menti più lucide della scienza economica novecentesca, maestra tra Baghdad e Oxford di generazioni di economisti: la grande e dimenticata Edith Penrose, che precedette tutti nel prevedere che la dimensione media delle imprese sarebbe continuata a scendere, contestualmente a processi di concentrazione tipici del nuovo owner capitalism da managers stockoptionisti, che ha distrutto il capitalismo manageriale per trasformarlo in capitalismo oligarchico ad altissima disuguaglianza.

Tutto viene di seguito. E la cultura woke e il transumanesimo alto-borghese liberale multilateralista hanno fornito le armi per l’inveramento ideologico della nuova oligarchia, sublimando nella filosofia à la Derrida della decostruzione sociale e dei diritti e dei doveri sociali la distruzione della società e l’annichilimento del lavoro, riducendo i lavoratori salariati delle big corporations — spesso invisibili perché high-tech — in nuovi schiavi.
È la prima volta che le forme di capitalismo sempre cangianti riattualizzano forme precapitalistiche, come lo schiavismo, oggi senza occuparsi della famiglia dello schiavo come era un tempo. Foucault e Derrida hanno fornito le armi postmoderne sotto forma delle pistole della cultura woke, che ha sprofondato l’umanità — o ciò che ne rimane — nella droga e nella leaderizzazione dei politici senza partiti, tipici del neo-caciquismo oggi imperante.

Il mondo è oppresso da una formidabile ondata di disuguaglianza sociale. Tutti gli Stati nazionali, in forme più spiccate e visibili, sono attraversati dalle faglie della divaricazione di status e di reddito.


Nel mondo tutto muta molto velocemente, e questa volta, a riprova dell’interconnessione ormai irreversibile, sarà tutto il globo a trasformarsi ancora più rapidamente, più di quanto non sia accaduto in altre epoche storiche, per l’avvento di una nuova ondata di grandi cicli Kondrat’ev, fondati sull’algoritmizzazione dell’assimilazione cognitiva magnetico-energetica, che trasforma il mondo e lo sottopone a formidabili tensioni di carenza di offerta sul fronte delle risorse energetiche necessarie a questo processo.

La ragione risiede nel fatto che, con le aggressioni alle regole del fair play internazionale compiute da Donald Trump, gli storici alleati degli USA, alleati di lunga durata, non scoraggeranno più come un tempo le altre nazioni a formare blocchi e a istituire o rafforzare reti commerciali atte a isolare sempre di più gli USA nell’arena mondiale. In fondo, altro non siamo che di fronte a un caso storico di «guerra economica».
Le tregue negoziali durano sempre meno, con la sospensione delle tariffe verso Canada e Messico in cambio di concessioni tattiche sui regimi d’immigrazione o su temi simili. Ma si tratta di bluff che generano e genereranno un’instabilità permanente, dettata dall’imprevedibilità delle decisioni della più grande potenza mondiale.

Si tratta sicuramente di uno strumento con cui gli USA credono di invertire la tendenza ormai irresistibile del loro declino industriale, che non è abbastanza bilanciato sul piano sociale — redditi e occupazione — dalla crescita irreversibile del primato USA nei servizi digitali ad alto consumo energetico. Ma tutto ciò altro non fa che compromettere la loro credibilità. Essi continuano a essere gli unici garanti della rete di alleanze che hanno sorretto tanto l’ordine quanto il disordine. Tema cruciale, tanto più decisivo grazie alle nuove posizioni assunte recentemente dall’Europa e dal Giappone sul riarmo.

Naturalmente non possiamo comprendere con quanta forza l’ordine mondiale tenderà alla disgregazione oppure al raggrumarsi di nuove potenze inclusive sulle alte vette del potere mondiale, come affermava il grande Ludwig Dehio. Il dramma è che anche le alte vette stanno disfacendosi.

 

La prova? Basta guardare al comportamento delle banche centrali: oggi si liberano, per quanto possono, di titoli del Tesoro USA e comprano oro; le riserve auree costituiscono ormai circa il 27% delle riserve totali. Ecco la notizia assai più importante della folcloristica parata militare di Pechino, che fa sfilare militari senza capi, capi appena eliminati dalle purghe di Xi Jinping, e capi di stato di nazioni centroasiatiche, tutti più debitrici alla Russia che alla Cina del loro ordine interno e della possibilità di trovare un indirizzo politico coerente (comune è impossibile, vedi Mongolia…).

Gli osservatori silenziosi giudicano questi comportamenti delle banche centrali una prova della caduta dell’affidabilità non tanto degli USA come potenza mondiale, ma, a mio parere, come l’inizio di una violenta crisi internazionale provocata dalla drammatica interruzione dell’era della globalizzazione secolare. Dalla crescita delle tariffe — come insegna Mundell nel suo saggio degli anni Sessanta del Novecento — non può derivare altro che la svalutazione selvaggia delle monete, con ciò che ne consegue, ossia un peggioramento delle condizioni economiche universali.

Essa altro non era che la politica di globalizzazione — come ho sempre sostenuto — una manifestazione dell’era della centralizzazione capitalistica mondiale, al centro della quale non vi erano più solo le filiere d’impresa che costituiscono il nerbo del commercio mondiale, ma, in primis, l’emersione di quello straordinario fenomeno internazionale che è stata la deflazione secolare, preconizzata da Hansen alla fine degli anni Trenta e culminata oggi con la guerra imperialistica.
Dalla fine degli anni Ottanta del Novecento inizia la creazione del mercato mondiale che, a differenza dell’epoca di Bastiat, ora si vuol fondare non più sul laissez-faire, ma sullo Stato, sui regolamenti speciali e infine sulla governance, e non più sulla politica economica ma sulle cosiddette prerogative di autorità indipendenti.

L’UE è l’esempio mostruoso, e di dissipazione con immensi dolori sociali, della costruzione di questa utopia del male, eletta a regula mundi attraverso la perversione del modello regolatorio francese e l’ordo-liberismo tedesco, condito con un neo-hegelismo à la Alexandre Kojève e una spruzzatina di neo-cameralismo USA.

Ma questo commercio mondiale (Germania merkeliana docet) altro non era che un insieme di Stati rivolti a costruire una politica di esportazioni basata su bassi salari, destinata a condurre sì all’ampliamento dei mercati, ma sulle basi fragili della deflazione e della povertà assoluta, che si allarga sempre più in tutto il mondo. Le guerre inter-imperialistiche, che iniziarono nei Balcani, continuarono in Georgia e in Ucraina, e dilagano in Myanmar da decenni, minacciano continuamente l’Indo-Pacifico con il conflitto indo-pakistano, complicando il quadro.Un quadro che le cancellerie internazionali, se riescono a interpretare, non riescono poi a frenare, ponendo in atto rimedi che altro non sarebbero che una capacità diplomatica — che non si è perduta — e che dovrebbe essere accompagnata da una capacità di deterrenza, sostituita oggi da una farsesca politica di riarmo europeo, senza basi scientifiche e militari degne di questo nome, con l’umiliazione di capi militari che potrebbero invece dare il meglio di sé. Ma gli Houthi continuano indisturbati a bombardare, invece di essere ridotti al silenzio liberatorio del commercio mondiale. Quando si parla del declino dell’Occidente, si parla di bazzecole che potrebbero essere evitate con un minimo di amor di patria e di orgoglio nazionale e internazionale democratico, a fronte dei burattini di Pechino e dei loro leader a libro paga.


Giulio Sapelli

Giulio Sapelli

Giulio Sapelli, già Professore ordinario all’Università degli Studi di Milano ed editorialista, unisce economia, storia, filosofia, sociologia e cultura umanista in una sintesi originale e profonda. Ha insegnato in Europa e nelle Università delle due Americhe, in Australia e Nuova Zelanda. I suoi lavori sono stati tradotti in tutto il mondo.
E’ Presidente della Fondazione Germozzi ed è impegnato a valorizzare il concetto di Valore artigiano, che è forza di popolo, di persone e di imprese legate da uno spirito unico, il quale esprime la vocazione originaria incline alla creatività e all’amore per la bellezza.

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Un progetto della Fondazione Manlio e Maria Letizia Germozzi onlus

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