La contrattazione collettiva è l’essenza della rappresentanza? La migliore letteratura sociologica e di relazioni industriali dice di no. Un autorevole studioso come Paolo Feltrin, nell’ambito di un recente evento su “Rappresentanza e contrattazione” promosso da Confartigianato Imprese Veneto, ci ha giustamente ricordato come l’essenza della rappresentanza sia anche e soprattutto altro e cioè: reinterpretare, associare e coinvolgere, a monte dell’attività di negoziazione collettiva; prossimità, servizio e collaborazione con le istituzioni, a valle del processo contrattuale.

 

La contrattazione collettiva, quantomeno in Italia, è ancora oggi un fenomeno radicato e centrale per chi guarda ai processi economici e alle dinamiche sociali del lavoro. Tuttavia, essa è semplicemente (ma non semplicisticamente) uno strumento della rappresentanza. È allora la rappresentanza l’essenza della contrattazione collettiva, non il contrario. Una contrattazione senza rappresentanza è un fenomeno incolore che non rileva né sul piano economico né su quello sociale, pur assumendo un (modesto) rilievo formale sul solo piano del dover essere giuridico.

È allora facile comprendere perché in Italia esista un problema di qualità della contrattazione collettiva: la stragrande maggioranza dei contratti depositati al CNEL è infatti un prodotto artificiale, frutto di una pletora di sigle che non agiscono per rappresentare interessi collettivi, di lavoratori e imprese, ma solo per conquistare privilegi e partecipare ai benefici che lo Stato concede al fenomeno collettivo e sindacale.

 

Come se la contrattazione collettiva non fosse dunque uno strumento della rappresentanza, come indica chiaramente l’articolo 39 della Costituzione, ma un “prodotto” funzionale a conquistare un “mercato della rappresentanza” in ragione di convenienze legate, di regola, all’abbattimento del costo del lavoro (minori salari e minori contribuzioni) e alla creazione di sistemi bilaterali fittizi funzionali a vendere servizi a imprese e lavoratori. Una contrattazione pirata, è stato detto, per segnalare fenomeni distorsivi della leale concorrenza tra imprese. Una contrattazione, in realtà, spesso corsara, perché sostenuta e alimentata dal collateralismo verso questo o quel partito politico.

Bene, dunque, che la rappresentanza genuina intenda riappropriarsi di questo strumento, la contrattazione collettiva, e delle reti di protezione che da questo nascono, in primis gli enti bilaterali, che sono una delle caratteristiche salienti della contrattazione di settori nobili della nostra economia come l’artigianato. Per riappropriarsi dello strumento non serve tuttavia, come molti suggeriscono, una legge sindacale: è sufficiente che la rappresentanza genuina di interessi continui a fare il suo mestiere, magari con modalità nuove e in linea coi tempi, ma sempre insistendo sulle fondamenta e cioè rappresentazione, associazionismo e coinvolgimento (prima della contrattazione) e prossimità e servizio, cioè bilateralità (dopo la contrattazione). Il punto, semmai, è quello di avviare una nuova stagione di rapporti con la politica e le istituzioni, anche questa funzione essenziale della rappresentanza, che metta ai margini e smetta di legittimare le tante sigle datoriali e sindacali che non rappresentano nessuno e che pure continuano a firmare contratti collettivi per ottenere presunte patenti di rappresentatività e un posto ai tavoli politici della concertazione e del dialogo sociale, tanto a livello nazionale quanto locale.

In questa prospettiva, centrale è la collaborazione con le istituzioni, perché è qui che si può riqualificare lo spazio pubblico dei corpi intermedi e la funzione storica del contratto collettivo di lavoro, in coerenza con le diverse tipologie di imprese e le peculiarità di ciascun territorio e settore produttivo.

 

Che sia così lo dimostra il lavoro svolto negli scorsi mesi, a fari spenti, dagli attori più rappresentativi del nostro sistema di relazioni industriali, che hanno condiviso, in sede di Commissione dell’informazione del CNEL, nuove direttive per l’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro.

L’archivio è attualmente noto, anche ai non addetti ai lavori, soprattutto per l’impressionante numero di contratti collettivi nazionali di lavoro in esso depositati, oltre mille per il solo settore privato. Un segno, a detta di molti – e per usare una terminologia cara a Ezio Tarantelli – dello “sfascio” del nostro sistema di relazioni industriali e della progressiva frammentazione e perdita di rilevanza della rappresentanza, tanto sul versante datoriale quanto su quello dei lavoratori. La realtà, tuttavia, è molto diversa e lo stesso CNEL si è recentemente fatto carico di documentare, attraverso una intensa attività di studio e analisi del prezioso patrimonio informativo e documentale presente in archivio, un quadro completamente diverso, caratterizzato da una estesissima applicazione dei contratti collettivi di lavoro, pur in assenza di una legge sull’erga omnes, e da una persistente centralità dei contratti sottoscritti, lato lavoratori, dalle tre confederazioni storiche. Basti pensare che i 99 contratti collettivi nazionali di lavoro di maggiore applicazione, sottoscritti da federazioni di categoria di CGIL, CISL e UIL, riguardano il 97% dei 14.628.361 lavoratori tracciati con i flussi Uniemens. Esistono indubbiamente centinaia di altri contratti minori, sottoscritti da oltre 250 associazioni datoriali e quasi 200 associazioni sindacali non rappresentate in seno al CNEL, che trovano però applicazione in un numero davvero limitato di aziende e lavoratori. Ben 438 contratti nazionali presenti in archivio sono applicati in meno di 50 aziende ciascuno e ben 343 coprono meno di 100 dipendenti ciascuno.

Da qui la già ricordata nuova organizzazione dell’archivio dei contratti, che contribuirà a dare una migliore e più corretta informazione a imprese, lavoratori e istituzioni.

Delle molte novità (alla portata di tutti tramite l’accesso libero all’archivio, collocato in bella evidenza sul sito istituzionale del CNEL) può essere sufficiente richiamarne due.

La prima novità è che i mille e passa contratti sono ora collocati in archivio in ragione del loro effettivo radicamento, cioè della loro applicazione da parte di imprese e lavoratori, come documentata dai flussi Uniemens. Per essere collocato tra i contratti di un determinato settore (meccanica, gomma-plastica o pubblici esercizi), il contratto collettivo deve segnalare un sia pur limitato radicamento statistico (in un intervallo che può variare, secondo le specificità dei settori o sotto-settori, dall’1 al 5%) rispetto al totale dei lavoratori del settore ovvero dei sotto-settori di riferimento. I contratti collettivi che non raggiungono detta soglia minima sono invece collocati in una diversa sezione perché, a livello statico, hanno una applicazione nulla nel settore a cui pure il campo di applicazione intende riferirsi.

La seconda novità, di estrema importanza per l’applicazione del Codice dei contratti pubblici, è relativa al passaggio alla nomenclatura Ateco. I testi contrattuali sono infatti collocati in archivio secondo una tassonomia articolata per macro-settori e sotto-settori ovvero gruppi di sotto-settori corrispondenti alle 22 sezioni e agli 87 divisori Ateco, così da rendere di immediata percezione la corrispondenza tra il dato giuridico (il campo di applicazione del contratto collettivo) e il dato economico (cioè il settore o sotto-settore economico di riferimento secondo lo schema di lettura dei codici Ateco).

Entrando nell’archivio dei contratti è dunque già ora possibile orientarsi con facilità tra i contratti effettivamente in uso nei diversi settori economici e produttivi, senza per questo cancellare dall’archivio stesso contratti che, formalmente, sono efficaci e che però non sono applicati da un numero minimo di imprese e lavoratori. Contratti che verranno dunque collocati in una distinta sezione dell’archivio. Per fare un solo esempio: dei 51 contratti nazionali della metalmeccanica ne troveremo 5 sotto la voce “contratti settore metalmeccanico” (che sono poi i contratti dei 5 sistemi più rappresentativi a livello comparato, tra cui quello delle imprese artigiane) e gli altri 46 nella voce “altri contratti”, unitamente a tutti gli altri contratti che non trovano reale applicazione nella prassi. Saranno poi gli uffici del CNEL a predisporre schede contratto dettagliate (secondo i parametri di analisi previsti dal Codice degli appalti pubblici) per i soli contratti imputati a ciascun settore o sottosettore, mentre è compito della Commissione dell’informazione del CNEL (con azioni già avviate su terziario di mercato ed edilizia) avviare verifiche comparative rispetto agli assetti normativi e retributivi dei diversi contratti presenti in archivio e in uso nella prassi.

Un’operazione di totale trasparenza che, come è nella finalità della legge 936 del 1986, dovrebbe contribuire non solo alla conservazione dei testi contrattuali ma anche alla qualità ed efficienza del nostro sistema di relazioni industriali, oltre che a facilitare – da parte delle istituzioni pubbliche, dei decisori politici e degli stessi attori della rappresentanza – l’opera di monitoraggio delle dinamiche retributive e contrattuali, che sono allo stato ancora parziali e lacunose nel nostro Paese.

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Michele Tiraboschi

Michele Tiraboschi

Professore di Diritto del lavoro (Università di Modena e Reggio Emilia). Coordinatore scientifico della Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro di ADAPT

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Un progetto della Fondazione Manlio e Maria Letizia Germozzi onlus

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