Si addensa un nuovo landscape ideologico-normativo che avrà di mira nuovamente la presunta incapacità managerial-operativa delle piccole e medie imprese italiane e mondiali, e in specie delle imprese artigiane, di affrontare le nuove procelle che si addensano – secondo i profeti ascoltatissimi del mainstream (nonostante i loro sempre più evidenti malaugurati risultati applicativi) – nei cieli dell’economia mondiale.
Ben s’intenda, codeste profezie, che non è il caso se non di evocare brevemente in questa sede, sono falsificate, ieri come oggi, da tutti coloro che si prendono la briga di leggere almeno due libri classici che classici più non possono essere: gli immortali capolavori di Alfred Marshall, Principles of Economics, London, Macmillan, 1890 e di Edith T. Penrose: quel capolavoro straordinario e mai abbastanza meditato che è The Theory of the Growth of the Firm, New York, John Wiley and Sons, 1959.
Non posso, poi, non citare i miei: Elogio della piccola impresa, Il Mulino, Bologna, 2013 e, con Enrico Quintavalle (che combatte con i numeri una battaglia continua e tenace), Nulla è come prima. Le piccole imprese nel decennio della grande trasformazione, Guerini, Milano, 2019.
Le tesi contrarie le conosciamo tutti: sono la dimensione e il sistema dei ruoli a creare – sempre – produttività e successo dell’impresa. Le imprese che sono fondate sulle relazioni personali, anziché sui silos incomunicanti dei ruoli e sull’agilità di trasformazione che consente la piccola e media dimensione (purché si disponga dei capitali – propri o bancari o parabancari), non hanno propensione alla produttività e all’innovazione perché modeste di dimensione e destinate quindi a povertà manageriale e innovativa: quindi, tanto ne nascono, tante ne muoiono, sgretolando – di più – le basi stesse del sistema socio-economico, nazionale e internazionale.
Decenni e decenni di esperienze, opere teoriche mai di moda ma fondate e verificate dai risultati imprenditoriali in ogni parte del pianeta, non fanno cessare la filastrocca della piccola e artigiana impresa sempre morente e sempre inquinante i sistemi economici.
Ebbene: i sistemi economici mondiali si avviano in questi mesi a una nuova grande trasformazione.
Dobbiamo essere in grado di comprenderne la vera natura, pena il ricadere di nuovo e questa volta disastrosamente in una crisi ideale prima che economica, per il risultato epocale che la trasformazione avrà. Occorre non cadere nel gorgo delle menzogne e nelle inesattezze che mirano a delegittimare il ruolo storico positivo – invece – delle imprese piccole, medie e artigiane.
Veniamo alle trasformazioni prossime: il presidente neo-eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, ha promesso di implementare una serie di tariffe aggressive sui partner commerciali americani, tra cui un’imposta generale del 20 percento sui beni provenienti dall’estero. I suoi sostenitori affermano che queste tariffe rafforzeranno la produzione statunitense e creeranno posti di lavoro; i critici sostengono, invece, che alimenteranno l’inflazione, sopprimeranno l’occupazione e forse faranno precipitare l’economia in recessione. Per comprovare quest’ultima tesi si ricorda minacciosamente la disastrosa esperienza economica del cosiddetto Smoot-Hawley Trade Act del 1930, che aumentò le tariffe su oltre 20.000 beni. Fu un fallimento, certo, ma il fallimento di allora non dice assolutamente nulla sull’effetto che le tariffe avrebbero sugli Stati Uniti oggi. A differenza di allora, gli Stati Uniti, oggi, non producono molto più di quanto possano consumare. La vicenda dello Smoot-Hawley contiene degli insegnamenti, di converso, non sugli USA, ma sulla Cina, la cui produzione in eccesso rispetto al mercato interno produce le conseguenze disastrose dell’invasione del mondo da parte di merci cinesi deprezzate e spesso nocive per la salute e per l’accuratezza delle lavorazioni, ecc. ecc.
In definitiva, la Cina di oggi è molto più vicina, in quanto struttura produttiva e dei consumi, agli USA di ieri: oggi gli USA consumano quote enormi della produzione mondiale esportando neppure il 10% della loro produzione interna, grazie al dollaro che rimane la moneta di riferimento e al potere militare immenso rispetto al resto del mondo. Le tariffe, poi, parenti della svalutazione della valuta, agiscono allo stesso modo: riducono i consumi interni e costringono ad aumentare i tassi di risparmio interno. Un paese con bassi consumi e risparmi eccessivi (come gli Stati Uniti negli anni ’20 o la Cina oggi) tenderà alla deflazione. Ma se i livelli di consumo sono troppo elevati, come gli USA di oggi, quella stessa politica può essere invece espansiva. E le tariffe potrebbero aumentare l’occupazione e i salari, innalzando gli standard di vita, facendo crescere l’economia.
L’economia americana moderna è molto diversa da quella del 1930. Infatti, quando si tratta di commercio, USA e Cina sono quasi all’opposto. Gli Stati Uniti hanno, ora, di gran lunga il più grande deficit commerciale della storia. Ciò significa che gli americani investono e (principalmente) consumano molto più di quanto producano. Il consumo statunitense negli anni ’20 era troppo basso rispetto alla produzione americana. Oggi è troppo alto.
All’epoca in cui furono emanati i dazi degli anni trenta (e furono gli anni della grande depressione del 1929, non scordiamolo), gli Stati Uniti soffrivano di troppi risparmi e di troppo pochi consumi. Ecco perché gli USA esportavano così tanto nel resto del mondo, come fa la Cina oggi. Ciò di cui gli americani avevano bisogno, allora, era di aumentare la quota di produzione distribuita alle famiglie sotto forma di salari, interessi e trasferimenti, il che, a sua volta, avrebbe aumentato gli standard di vita, incrementato la domanda interna e ridotto la dipendenza degli Stati Uniti dai consumi esteri.
Invece, aumentando il prezzo dei beni importati, le tariffe degli anni trenta del Novecento ottennero l’effetto opposto. Aumentò la tassa implicita sui consumi americani, sovvenzionando ulteriormente i produttori americani. Invece di ridurre la dipendenza degli Stati Uniti dagli stranieri per assorbire la produzione in eccesso, i dazi la aumentarono.
Oggi, al contrario, gli americani consumano una quota decisamente troppo grande di ciò che producono, e quindi devono importare la differenza dall’estero. In questo caso, le tariffe odierne reindirizzerebbero una parte della domanda statunitense verso l’aumento della quantità totale di beni e servizi prodotti in patria. Ciò porterebbe il PIL statunitense a salire, con conseguente maggiore occupazione, salari più alti e meno debito. Le famiglie americane sarebbero in grado di consumare di più, anche se il consumo, come quota del PIL, diminuisse.
In breve: gli USA abbandonerebbero via via, molto più lentamente di quanto non si immagini oggi (da quel che si legge del dibattito in corso sulle riviste nordamericane e inglesi più accreditate universalmente), il ruolo di consumatore globale in ultima istanza oggi da essi svolto. L’obiettivo non sarebbe quello di proteggere specifici settori manifatturieri o campioni nazionali, ma di contrastare l’orientamento pro-consumo e anti-produzione degli Stati Uniti. L’obiettivo delle tariffe americane, in altre parole, dovrebbe essere quello di eliminare l’adattamento automatico degli Stati Uniti agli squilibri commerciali globali.
In conclusione: i dazi sono semplicemente uno dei tanti strumenti che possono migliorare i risultati economici in alcune condizioni e deprimerli in altre. In un’economia che soffre di consumi eccessivi, bassi risparmi e una quota manifatturiera in calo del PIL, l’attenzione degli economisti dovrebbe concentrarsi sulle cause di queste condizioni e sulle politiche che potrebbero invertirle.
I dazi potrebbero essere una di queste politiche.
Politiche che, se fossero applicate con cautela e sperimentate volta per volta su gruppi di nazioni che comunichino tra loro in forma accurata e diretta, potrebbero invertire il ciclo perverso in cui si è infilata la storia economica mondiale, schiacciata – soprattutto in Europa – da una politica export-led disastrosa, ossia rivolta principalmente all’esportazione e che ha sempre più depresso i mercati interni, favorendo politiche di bassi salari e bassi consumi non di lusso che hanno coesistito armonicamente, ahimè, con le politiche del lavoro dequalificato che ci ammorbano, a tempo determinato, con i bassi consumi e gli alti livelli di povertà, come dimostra il declino delle classi medie, l’arresto della mobilità sociale e tutti i mali di cui soffre l’Europa e l’Italia storicamente da una trentina di anni.
Paradossalmente, le sanzioni USA alla Russia in risposta all’aggressione imperiale e imperialista all’Ucraina, con la quasi completa interruzione dei rifornimenti energetici alla Germania e all’Europa tutta del gas e del petrolio russo, hanno fatto esplodere questa situazione, disvelando al mondo il meccanismo reale di funzionamento della UE e quindi di gran parte dell’economia mondiale.
Certo: la trasformazione del commercio mondiale non è una panacea. Ma certamente è un disastro avere gli occhi foderati di ideologia neoclassica libero-scambista, che non esplora la necessità di mutare il verso della politica economica mondiale e della UE in primis.
Non sempre un uragano politico non gradito porta con sé politiche economiche negative.
Forse è ciò che sta accadendo da qualche tempo nell’economia mondiale grazie al cambiamento politico in corso negli USA.
Certo, il tutto è inquietante, soprattutto per la rapidità con cui avviene… ma il pericolo è il nostro mestiere, se sappiamo trarne gli insegnamenti giusti.
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Giulio Sapelli
Giulio Sapelli, già Professore ordinario all’Università degli Studi di Milano ed editorialista, unisce economia, storia, filosofia, sociologia e cultura umanista in una sintesi originale e profonda. Ha insegnato in Europa e nelle Università delle due Americhe, in Australia e Nuova Zelanda. I suoi lavori sono stati tradotti in tutto il mondo.
E’ Presidente della Fondazione Germozzi ed è impegnato a valorizzare il concetto di Valore artigiano, che è forza di popolo, di persone e di imprese legate da uno spirito unico, il quale esprime la vocazione originaria incline alla creatività e all’amore per la bellezza.