«Il mestiere dello scrittore è un’arte, o meglio un artigianato». Parole di una delle grandi autrici del secolo scorso, Marguerite Yourcenar. Fa pensare quel momento di sospensione, di ripensamento tra parole così simili, della stessa famiglia: arte e artigianato. Come se la prima appartenesse al campo delle emozioni, della creatività, della cultura, di tutto ciò che riconduciamo all’idea romantica di chi racconta storie, mentre la seconda si limitasse ad una molto più prosaica attività manuale, pratica, tecnico-funzionale.

Continuando a giocare con le parole, basterebbe pensare a cosa intendiamo per impresa, l’onda lunga di considerazioni, retroterra culturale, sensazioni che si porta dietro. Le imprese come gesta degli eroi, mirabili peripezie che entrano nell’immaginario comune. E imprese come le grandi realtà che troviamo sul mercato, nate magari in uno scantinato, un garage o una cantina e cresciute fino a diventare importanti realtà.

Imprese, le une e le altre, che si portano dietro un mito fondativo, il nucleo di ciò che sarà tramandato alle generazioni future per ricordare e rilanciare la visione di chi ha provato a trasformare un’intuizione in qualcosa di tangibile. Imprese che riconduciamo alla fatica, all’avventura, la fatica, le incertezze dei primi incerti passi per diventare grandi e credibili, fino al sogno diventato realtà, eccellenza riconosciuta, come nel più classico lieto fine.

 

L’uomo è un animale narrante, organizza il caos della realtà in storie che si racconta, dall’alba dei tempi, per crescere, allontanare la paura e cavarci un senso. Storie che modifichiamo per l’occasione, adattiamo ai tempi e alle circostanze, a media e pubblici diversi. Ed i mercati non fanno differenza. Lo anticipavano, all’alba del nuovo millennio, i filosofi hackerche hanno stilato le 95 tesi del Cluetrain manifesto. La prima, lapidaria, recita «I mercati sono conversazioni».

 

Eravamo nel 2000, le connessioni erano ancora lente e i telefoni non adatti a navigare su internet, i social non esistevano e le storie erano quelle dei libri, non su Instagram. Ma la rivoluzione digitale aveva già prodotto un cambiamento inevitabile nelle nostre vite e nelle nostre abitudini, enfatizzando l’importanza dello storytelling e il nostro bisogno di recepire storie da nuovi mondi e su nuove interfacce. I depliant, le schede prodotto, i consigli per gli acquisti annunciati in televisione sembrano invecchiati di colpo, sorpassati dal tempo: la comunicazione dei brand agisce su più piani e parla di valori come sostenibilità, ambiente, inclusione, colpisce al cuore prima che alla testa. Costituisce, insomma, un ponte stabile con i consumatori, percorso peraltro in entrambi i sensi.

Nella maggior parte dei casi, il successo di una storia è una questione di empatia. Leggiamo romanzi, guardiamo film e serie TV immedesimandoci nel protagonista e nelle sue scelte, lo accompagniamo nelle prove da superare, gli stringiamo la mano che ci sta tendendo. E allo stesso tempo lasciamo che ci racconti qualcosa delle nostre vite. Sta tutta qui la sfida per le piccole e medie imprese: non limitarsi a comunicare, ma provare a raccontare, stimolare questa presa emotiva che unisce e crea un legame forte e duraturo. O, come sintetizzava il Novecento protagonista de La leggenda del pianista sull’oceano, «Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla».

 

Foto di Paco Rueda da Pixabay