
La vicenda del Teatro La Fenice di Venezia è notissima: due incendi e altrettante ricostruzioni-resurrezioni, proprio nel segno del mitico volatile capace di risorgere dalle proprie ceneri e che regala il nome a quel tesoro veneziano. L’inaugurazione del 1792 fu un grande successo anche per la qualità degli stucchi, degli arredi, degli addobbi. Scrisse la Gazzetta Urbana Veneta nel resoconto dell’apertura del 16 maggio 1792:
«… ha tutti i requisiti che son necessarj all’effetto; chiarezza di tinte, armonia, solidità e leggerezza cose difficili a combinarsi, e che mirabilmente s’uniscono in questo lavoro. Il soffitto a volta è d’una curva poco ascendente ma che per artifizio della pittura par che sollevisivi oltre i suoi limiti. Nella grande apertura del mezzo vedesi un cielo con diversi Genj aventi i simboli allusici al soggetto. Resta talmente leggiero che sembra realmente aperto. Lo scomparto e gli ornamenti di questa pittura son del più puro e fino carattere, e consistono in basso rilievi, rosoni e arabeschi di gusto antico. Tutti li 174 palchi componenti questo Teatro sono simili perfettamente…».
La cronaca certifica l’orgoglio dei veneziani per questa sua creatura artistica e insieme di eccellenze artigianali. Nel 1836 un incendio la distrugge in gran parte. Segue una ricostruzione minuziosamente attenta ai dettagli – oggi la definiremmo filologica – condotta dagli ingegneri-architetti Tommaso e Giambattista Meduna, che la restituiscono al suo splendore occupandosi anche delle decorazioni e del ripristino delle Sale Apollinee risparmiate dal fuoco e dalla distruzione.
Il 28 gennaio 1996 un altro devastante incendio, stavolta colpevolmente doloso (qui non ci occuperemo certo delle vicende giudiziarie) cancella di nuovo il meraviglioso teatro aprendo una ferita culturale condivisa da mezzo mondo. Dopo un breve ma acceso dibattito, si sceglie il ripristino com’era e dov’era, secondo lo slogan scelto dall’allora sindaco Filippo Grimani per il campanile di Venezia crollato nel 1902. Dichiara nel gennaio 1998 Massimo Cacciari, in quel momento sindaco di Venezia:
«Si ricostruirà com’era e dov’era, cioè edificio, spazi scenici, platea, stucchi, decori.. Se non si fosse scelta questa linea saremmo ancora impantanati nella disputa accademica su come far risorgere la Fenice dalle sue ceneri»
Di fatto la vicenda della Fenice diventa, agli albori del nuovo Millennio, uno straordinario paradigma dell’artigianato come interlocutore essenziale, anche in una contemporaneità caratterizzata dalla fiducia nelle nuove tecnologie, per il ripristino di un tesoro culturale. Ed eccoci nei giorni della inaugurazione del 14 dicembre 2003. Scrive il grande critico d’arte Arturo Carlo Quintavalle sul Corriere della Sera il 7 ottobre di quell’anno, inviato dal quotidiano milanese a realizzare una cronaca culturale prima della riapertura:
«Centinaia di operai, specialisti di stucchi e di marmi, di legni e di cartapesta, di intonaci e di metalli, e poi, insieme, ingegneri strutturisti e manovali, muratori e barcaioli, gruisti ed elettricisti, divisi in gruppi, le parlate di tutta Italia, tutti sono al lavoro, a turni continui, per finire la Fenice, per riproporla, com’ era e dov’ era. …..Cominciamo dalla facciata, che è ormai quasi conclusa. Stanno lavorando alle rifiniture. Fregi, sculture, colonne, finestre tutto parla di un gusto neoclassico raffinato, che evoca appena le antiche glorie di Palladio…..»
Quintavalle lavora di dettagli e, da vero critico d’arte abituato a individuare la mano degli artisti, racconta: «L’ impatto più emozionante è lo spazio interno della cavea, con sovrapposti gli ordini dei palchi: qui, sui ponteggi, decine di operai fissano i pannelli con le figure dipinte, staccano i montanti a legno traforato per farli dorare, controllano le cornici, le finiture. Per il palco reale, già imperiale ai tempi degli austriaci, infine privato dello stemma sabaudo, ci sono voluti venti giorni di lavoro di diversi intagliatori per ogni singola cornice, poi verranno gli specchi, il dipinto del soffitto e così il palco sarà completato, pavimento compreso».
Ancora altri particolari che, riletti oggi, ci aiutano a valutare e comprendere lo sforzo compiuto 22 anni fa per ripristinare la Fenice:
«In alto il cielo della grande sala è ormai finito, comprese le pitture, e sta sospeso alle putrelle del tetto; ma la parte forse più complicata deve essere stata quella sul golfo mistico fitta di figure bianche in gesso, di cornici ritagliate e di pannelli dipinti: un puzzle, costruito in laboratori distanti fra loro, progettato a tavolino e montato adesso, ad incastro, un miracolo di collaborazione fra tecnici diversi, tutti artigiani espertissimi».
Per rifare la Fenice occorrono 1500 metri quadrati di sfoglia d’oro e 550 di cartapesta raffinata. Il 13 dicembre, sempre sul Corriere della Sera, Francesco Battistini racconta le storie degli artigiani. Lo scenografo napoletano Mauro Carosi: «Ho cercato d’ interpretare un’ epoca lontanissima, di ridare un senso a decorazioni disegnate nel ‘ 700 e rifatte nell’ 800. Sono entrato nella fantasia di quegli artigiani. La sfida era non tradire quel pensiero, non fare un falso con l’ anima». Carosi ha ridisegnato gli ori, le parti lignee, le foglie d’ acanto, le ninfee, i genietti, il controsoffitto, la volta celeste. I tendaggi si devono al tappezziere Alessandro Favaretto Rubelli, terza generazione alla guida dell’azienda di famiglia: ha ritrovato nell’archivio familiare un quadratino del rosa antico usato da suo nonno per le tappezzerie della Fenice. Il maestro vetraio Massimo Soffiato ha ripristinato le luci (1026 tra lampadari, paralumi, cristalli, ceramiche, incluso il grande lampadario centrale curato con un vecchio vetraio di Bassano) andando a pescare trenta artigiani tra le calli e i campi.
Questa è la storia della Fenice risorta nel 2003 dalle sue ceneri del 1996, rinata solo grazie ai saperi artigianali.
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Paolo Conti
Paolo Conti è un prestigioso giornalista e scrittore, con una lunga carriera al Corriere della Sera, dove ha ricoperto ruoli di rilievo nel raccontare temi culturali, istituzionali e sociali. Con un approccio approfondito e analitico, ha contribuito in modo significativo al panorama del giornalismo italiano, distinguendosi per la sua capacità di trattare con rigore e sensibilità i grandi temi del nostro tempo.