
A metà del 1700 Voltaire affermava: “È ben difficile, in geografia come in morale, capire il mondo senza uscire di casa propria”. Schierandosi con convinzione e consapevolezza dalla parte del filosofo francese e riportando tale esternazione al ventunesimo secolo, emerge la necessità di viaggiare per crescere. Crescere dal punto di vista etico e socio-culturale, immergendosi in realtà territoriali più o meno prossime in termini fisici, storici e culturali.
Oggi il viaggio è sinonimo di turismo. È il necessario tramite verso la meta prescelta, verso quella mappa mentale della vacanza che è sempre più influenzata dalla ricerca del bello, dell’arte, dell’archeologia, del patrimonio territoriale nella sua massima espressione.
Da oltre vent’anni il concetto di vacanza ha mostrato la capacità di cambiare direzione, con estrema rapidità e frequenza. Le tradizionali ferie estive hanno lasciato spazio a più eventi (brevi o brevissimi) distribuiti nel corso dell’anno, verso città d’arte, luoghi e cammini di culto, paesaggi, territori affermati per la produzione di tipicità locali.
Un percorso spontaneo in grado di amplificare la pressione esercitata dai turisti sulle risorse, in termini temporali (stagionalità) e locali (singoli siti). Le richieste di aiuto da parte di numerose mete sono sempre più frequenti e accorate; località che si trovano ad affrontare impegni che vanno ben oltre la propria capacità di carico, sottoponendo il territorio a forme di stress tali da ridurre la qualità del servizio offerto e mettere a rischio la salvaguardia del patrimonio alla base del successo turistico. Situazioni di “Overtourism”, volendo utilizzare un termine attuale e diffuso; un neologismo coniato nel 2016 dall’imprenditore Rafat Ali, CEO di una rinomata piattaforma turistica on line newyorkese, per descrivere fenomeni di Iperturismo concentrati in alcuni territori e in determinati periodi dell’anno.
L’Overtourism è l’impatto su una destinazione, o parti di essa, che influenza eccessivamente e in modo negativo la qualità della vita percepita dai cittadini e/o la qualità delle esperienze dei visitatori. Termine che nel 2017 Telegraph elegge parola dell’anno, richiamando l’attenzione dell’Organizzazione Mondiale del Turismo e aprendo un dibattito che, ad oggi, è ancora lontano dal trovare risposte certe e condivise.
Punto di partenza è che le persone hanno più opportunità di viaggiare e maggiori budget da dedicare al turismo. Fare vacanza è ormai incredibilmente semplice e alla portata di tutti. Il problema è che l’80% dei viaggiatori si concentra nel 10% dei luoghi visitabili e nel 50% dei giorni dell’anno, causando evidenti impatti ambientali, sociali ed economici.
Impatti che necessitano di misure di intervento appropriate, ma che al tempo stesso avviano una profonda e discordante riflessione sugli effetti della democratizzazione dei viaggi da un lato e sull’irrinunciabilità all’economia del turismo dall’atro.
In Italia il turismo produce direttamente non meno del 13% del PIL, dando lavoro ad oltre il 10% della popolazione attiva. Se al fenomeno diretto sommiamo l’indotto tali percentuali raddoppiano.
È chiaro quanto sia “inopportuno” avviare campagne anti-turismo senza soffermarsi sui problemi economici e sociali che ne deriverebbero; al tempo stesso è altrettanto evidente la necessità di intervenire, di capire quanto viaggiare sia un diritto inalienabile o rappresenti un problema, di inquadrare la capacità del turismo di distruggere i luoghi che celebra. Il turismo vende il territorio, un enorme contenitore di esperienze ed emozioni, eterogenee, tangibili e intangibili, e in quanto tale necessità di preservazione e conservazione. Al tempo stesso un paesaggio, un’opera d’arte, un museo, hanno il diritto/dovere di essere ammirati ed apprezzati, rappresentando la storia e la cultura di un luogo, la spina dorsale di un popolo e del territorio da questo abitato.
Problematiche attuali e crescenti alle quali è necessario trovare soluzioni nel brevissimo periodo.
Quale via scegliere? Contingentare arrivi e presenze, intervenire con leggi e regolamenti, imporre o vietare determinati comportamenti? Alcune mete turistiche europee (Venezia, Barcellona, Berlino) hanno avviato iniziative con risultati incerti, anche a causa dell’assenza di una necessaria pianificazione di medio-lungo termine. Chi scrive resta della convinzione che visitare un luogo, sia esso una città, un museo, una meta di culto, sia un principio etico inalienabile e rientri nei diritti fondamentali dell’essere umano, anche se non formalizzato in testi ufficiali, e che l’apporto dell’economia del turismo sia indispensabile per una nazione come l’Italia, ad oggi incapace di competere altrimenti in uno scenario globale. Individuare la giusta via da seguire non è poi così difficile. Il 90% del territorio italiano ospita il 20% dei flussi totali, concentrati in non più di 4-5 mesi. Sarebbe probabilmente utile lavorare su politiche di destagionalizzazione, e soprattutto di equa distribuzione dei flussi sul territorio nazionale, per gran parte ancora ignorato dai grandi operatori internazionali. Venezia, meta simbolo dell’overtourism italiano, ha mostrato, forse involontariamente, la possibilità di redistribuire le presenze turistiche nei giorni della settimana e nei territori della laguna veneta, evitando l’inaccettabile sovraccarico del weekend, introducendo un ticket d’accesso il sabato e la domenica. Una iniziativa spot, non risolutiva, ma certamente in grado di aprire percorsi di riflessione su come sia possibile “utilizzare” il patrimonio territoriale limitando gli impatti negativi, trasformandoli in economie esterne, mettendo a sistema i contesti locali e soprattutto operando su una scala territoriale appropriata.
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Marco Brogna
È Professore Associato di Geografia Economica presso la Facoltà di Economia di Sapienza Università di Roma. Insegna Geografia e pianificazione turistica e Territorio impresa e sviluppo. Ha venti anni di esperienza in studi e ricerche. Ha collaborato con amministrazioni locali e associazioni di categoria, con particolare attenzione sulla trasversalità del comparto turistico, sulla necessità di ragionare in ottica sistemica e sugli impatti territoriali delle politiche d’intervento. Autore di numerose pubblicazioni, è stato direttore e coordinatore di Master universitari.