L’Italia viene spesso rappresentata come un Paese caotico, ma vitale.
In realtà è culla di una miriade di piccole imprese e di una fitta rete associativa sostenuta da un volontariato diffuso.
Quello italiano è un contesto ricco e plurale in cui prospera l’iniziativa personale. Non è un caso che il nostro Paese sia riconosciuto nel mondo come la patria della creatività, della vivacità intellettuale, della genialità.
Ciò che contraddistingue l’Italia è la ,pluralità dei luoghi e dei paesaggi della varietà delle forme in cui si traducono lavoro e produzione. Un mondo polifonico, quello italiano, che tuttavia presenta significative ricorrenze che ne restituiscono un unico carattere di riconoscibilità che si esprime nell’attenzione al dettaglio, nella cura della dimensione estetica, nella ricerca della qualità, nella predilezione per l’approccio sartoriale e artigianale.
Uno stile di pensiero, di lavoro e di vita.
Come è noto, negli ultimi 30 anni l’Italia ha partecipato solo marginalmente alla forte espansione globale. Con livelli di produttività e tassi di crescita stabilmente inferiori rispetto agli altri Paesi europei, l’Italia ha vissuto una lunga stagnazione. Mentre, internamente, è aumentato il divario Nord-Sud. La vitalità che ci ha resi orgogliosi nel mondo si è infiacchita. L’arrivo del Covid ha colpito il nostro Paese in maniera particolarmente acuta.
Eppure, in modo inaspettato, il rimbalzo positivo del biennio 2021-2022 è stato più importante in Italia che altrove. Abbiamo visto uno scatto in avanti, come non accadeva da decenni.
Cosa abbia provocato questo movimento è ancora da capire. Non è possibile, però, non considerare l’apporto di almeno tre fattori.
Prima di tutto, il contributo del governo Draghi che, grazie all’autorevolezza del Primo Ministro, ha migliorato la reputazione internazionale del nostro Paese. Oltre a trasmettere, sul piano nazionale, un nuovo senso di sicurezza e fiducia che mancava da molti anni.
Poi il PNRR, che, oltre ad averci costretti a elaborare alcune linee di futuro, ha impresso una potente spinta economica e psicologica.
Infine, l’esperienza del Covid, la quale, nonostante le contrastanti interpretazioni, ha rappresentato un momento dal forte significato simbolico che ha generato un rinnovato senso di unità e attivato nuove correnti di solidarietà.
L’inizio della guerra in Ucraina ha aperto una nuova stagione segnata dall’incertezza. L’instabilità geopolitica globale, l’aumento dell’inflazione, l’annuncio di una stagione di recessione, i problemi energetici e gli effetti sempre più evidenti del cambiamento climatico non lasciano dubbi: il quadro è cambiato.
E questo richiede un nuovo cambio di passo.
Per l’Italia e l’Europa la sfida è quella di imparare a limitare gli effetti entropici e antropici del modello di sviluppo ereditato dagli ultimi decenni. Senza deprimere, anzi, alimentando la spinta positiva vista nell’ultimo biennio
Non è ancora chiaro se e come ciò potrà accadere. Il nostro è un Paese che deve ancora decidere di voler sconfiggere quel fondo depressivo che lo accompagna da tempo e che il biennio post-Covid ha scosso, ma non risolto.
È una sindrome trasversale e intergenerazionale (e per questo preoccupante) quella che attraversa il Paese e che traspare nell’affievolirsi della spinta imprenditoriale, nel numero straordinariamente elevato di NEET, nel declino demografico, nell’allargarsi della fascia di povertà e della sopravvivenza assistita, nel processo di invecchiamento dell’imprenditoria italiana.
Benché l’attenzione sia principalmente rivolta all’immigrazione, in realtà non va dimenticato che l’emigrazione è ancora un fenomeno italiano. Come raccontano i ragazzi e le ragazze dall’elevato potenziale che negli ultimi anni hanno deciso di lasciare il Paese perché certi di avere maggiori possibilità di vita e di crescita altrove.
Un sentimento di sfiducia e di rinuncia accomuna le generazioni, anche le più giovani. È come se l’Italia non si sentisse ancora capace di investire nel suo futuro.
Le ragioni sono certamente molteplici, ma, almeno in parte, questa sorta di ripiegamento può essere ricondotta ad una incomprensione di fondo tipica dei Paesi che arrivano al benessere troppo in fretta: e cioè che la crescita va continuamente ricostituita.
Questo è particolarmente vero nella fase che stiamo vivendo: terminata l’espansione della globalizzazione, sarà sempre più necessario imparare a lavorare insieme, seriamente, per ricreare le condizioni per un futuro comune.
Difficile pensare di poter contare ancora una volta sul debito pubblico; sull’arrivo di milioni di migranti poco qualificati e con salari insufficienti a garantire una vita dignitosa; su un livello di prosperità ereditato dal passato e ancora sufficientemente diffuso.
L’Italia ha le capacità e le competenze per guardare avanti con fiducia e, a questo proposito, il Rapporto Italia Generativa non manca di illuminare alcune aree dall’elevato potenziale. Eppure, sembra ancora mancare la volontà di far convergere le forze presenti ma disperse, ed imprimere una comune spinta generativa verso il futuro.
Tra i fattori che frenano, c’è l’indebolimento del senso di appartenenza ad una stessa comunità. Uno svuotamento causato da una cultura individualista che negli ultimi decenni ha portato allo slegamento dell’Io dal Noi. Questo movimento di separazione (che è anche di isolamento e frammentazione, e dunque di potenziale vulnerabilità) si è combinato con una generalizzata crisi di sfiducia – nelle istituzioni, nell’agire collettivo, nel domani –, generando un nodo difficile di districare.
In questo momento, l’Italia è in surplace.
È l’immagine del ciclista dalle grandi potenzialità ma tutto concentrato nel rimanere in equilibrio sul posto, piuttosto che nel lanciarsi verso il futuro che lo attende.
Così forse si può raccontare un Paese in cui gran parte delle energie – pubbliche e private – sono impegnate nel tentativo di conservare la posizione, più che a costruire un domani desiderabile.
Continuare a riflettere sulle ragioni di questa paradossale staticità è importante.
Il ciclista che sta fermo sulla bicicletta è molto abile. Ma il suo problema è quello di focalizzare tutti gli sforzi per tenersi in piedi. In questo modo, la sua forza va dispersa. Non è finalizzata
Lo stesso vale per l’Italia: un Paese impegnato a restare in equilibrio, ma con una scarsa proiezione verso l’avvenire. E tanto meno verso le nuove generazioni.
Questa situazione va sbloccata, rigenerando condizioni adatte a favorire lo scatto in avanti. Diventando una società più matura e consapevole della propria storia. E proprio per questo più capace di concentrarsi sulle priorità.
Al di là del breve termine (che causa entropia e dispersione generazionale) serve uno sviluppo diverso, più armonico e di lungo periodo, basato sull’investimento e la cura dell’intero ecosistema sociale. A fare la differenza sarà soprattutto la capacità di rivitalizzare e riattualizzare il legame persone-infrastrutture-conoscenza.
Il Rapporto Italia Generativa (visita il sito web) raccoglie e prova a ricomporre le facce di un Paese ancora vitale, ma che continua a sprecare i suoi talenti in un contesto che resta troppo caotico. E perciò altamente dispersivo.
Oggi il cambiamento dello scenario internazionale espone a molti pericoli, ma anche sollecita a una nuova reattività di cui l’Italia è capace, forse meglio di altri Paesi, come ha dimostrato negli ultimi due anni. La condizione è quella di lavorare tutti insieme per rimuovere gli ostacoli che bloccano le energie generative della nostra società. Il che concretamente significa muoversi su cinque direttrici strategiche: tornare alla centralità dell’investimento come leva per il futuro; rimettere la centro la qualità delle persone che si fonda sula qualità del sistema educativo; contrastate la disuguaglianza demotivante, nonostante le forte spesa sociale; curare l’ecosistema della singolarità che è la vera forza del Made in Italy; costruire un po’ per volta la nuova cornice del bene comune della sostenibilità.
Mauro Magatti
Laureato in Discipline Economiche e Sociali all'Università Bocconi di Milano e Ph.D. in Social Sciences a Canterbury, è professore ordinario all’Università Cattolica di Milano. Sociologo, economista ed editorialista del Corriere della Sera, membro della Commissione Centrale di Beneficienza della Fondazione Cariplo, del Comitato per la Solidarietà e lo sviluppo di Banca Prossima e del Comitato Permanente della Fondazione Ambrosianeum. Dal 2008 è direttore del Centro ARC (Anthropology of Religion and Cultural Change)