Nell’arco dei trentun mesi dallo scoppio della pandemia si sono generati effetti sui sistemi economici e sulle società che, su scala globale e locale, impattano su diversi aspetti della sostenibilità, come si delinea dall’esame di alcune evidenze statistiche.

Sul fronte del lavoro le ricadute della pandemia sono divaricate, concentrando gli effetti negativi sull’occupazione indipendente, il segmento del mercato del lavoro privo di un adeguato sistema di ammortizzatori sociali. Tra febbraio 2020, mese precedente allo scoppio dell’epidemia da Covid-19, e luglio 2022 l’occupazione indipendente segna un calo di 225mila unità (-4,3%) a fronte dell’incremento di 404mila occupati dipendenti (+2,3%), composto dall’aumento di 221mila dipendenti temporanei (+7,5%) e da quello di 183mila dipendenti permanenti (+1,2%). I dati trimestrali pubblicati dall’Istat consentono alcuni approfondimenti. Nella media dell’ultimo anno (terzo trimestre 2021-secondo trimestre 2022), l’occupazione indipendente maschile è scesa del 5,6% rispetto al 2019, anno pre-pandemia, e quella femminile ha ceduto del 5,9%. Va segnalato che negli ultimi dodici mesi l’occupazione indipendente femminile registra un recupero, con una crescita tendenziale del 3,6% a fronte del calo dell’1,0% degli indipendenti uomini.

Gli effetti sul lavoro autonomo della recessione da Covid-19 sono diffusi sul territorio. Mentre nel  Mezzogiorno il calo dell’occupazione indipendente si ferma al 3,2%, si registra una maggiore e progressiva accentuazione nel   Nord-ovest con -5,8%, Nord-est con -6,9% e Centro con -7,5%.

Attualmente, una estensione dei lockdown energetici e un aumento delle cessazioni di attività causate dagli insostenibili costi dell’energia – le recenti stime di Confartigianato individuano 881mila MPI nel perimetro dei 43 settori a maggiore rischio – aggraverebbe la crisi del lavoro autonomo innescata dalla pandemia.

Il sistema di welfare italiano presenta aspetti di scarsa efficacia rispetto altri caratteri della sostenibilità sociale. Nell’arco di dieci anni la spesa pubblica è passata dal 49,2% del PIL nel 2011 al 55,5% del PIL nel 2021, con un aumento di 6,3 punti, più che doppio rispetto ai 3 punti in più registrati nell’Eurozona. Secono la classificazione per funzioni, la spesa per la protezione sociale in rapporto al PIL è salita dal 19,5% del 2011 al 25,2% del 2020, ultimo anno disponibile.

Nonostante questa straordinaria dilatazione della presenza dello stato nell’economia, nel decennio in esame le famiglie in povertà assoluta sono quasi raddoppiate (+81,3%), passando da poco più di un milione (1 milione 81 mila) a quasi due milioni (1 milione 960mila), con una incidenza che sale di 3,2 punti,  passando dal 4,3% al 7,5%.

Nella pandemia, tra il 2019 e il 2021, la spesa pubblica è esplosa, salendo di 115,1 miliardi di euro, mentre ulteriori 286mila famiglie sono scivolate in  povertà.

Il caro-bollette amplierà la povertà energetica. Ad agosto i prezzi di elettricità, gas e altri combustibili in Italia salgono del 76,4%, ben 24,5 punti in più rispetto al 51,9% dell’Eurozona. Già nel 2020 l’8,8% delle famiglie non si può permettere di riscaldare adeguatamente la casa, mentre il 5,6% dichiara di avere arretrati sulle bollette, quota che sale al 14,9% per le famiglie più numerose, con 3 figli ed oltre.

Sul fronte della sostenibilità ambientale la crisi energetica sta sollecitando l’uso delle fonti rinnovabili: nei primi otto mesi del 2022 si registra un aumento del 6,6% su base annua della produzione di energia dalle fonti rinnovabili di geotermico, eolico e solare. Un effetto opposto è causato dalla siccità, che è determinante nel crollo del 38,5% della produzione idroelettrica.

L’inadeguatezza degli investimenti pubblici penalizza il contrasto agli effetti del climate change, come si è evidenziato drammaticamente nella recente alluvione nelle Marche. Nell’ultimo decennio la crescita della spesa pubblica è trainata dalla spesa corrente al netto degli interessi, salita del 21,9%, mentre quella per investimenti pubblici sale di un limitato 5,9%, penalizzando gli interventi infrastrutturali per la protezione del territorio. L’Italia è il terzo paese dell’Unione europea, dietro a Slovenia e Francia, per intensità dei danni economici causati da eventi meteorologici e climatici estremi in 40 anni (1980-2020), con un importo di 1.556 euro per abitante, il 37,3% in più della media Ue.

Queste ultime criticità ampliano i paradossi e dilemmi della transizione green preesistenti all’attuale crisi energetica, rendendo più complesso il percorso verso una maggiore sostenibilità ambientale. Vediamone alcuni.

Il Green Deal europeo, varato a dicembre 2019, prevede interventi per ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030 e arrivare nel 2050 a emissioni zero. Ma l’annuncio di una riduzione della domanda europea di idrocarburi, associato ad un basso controllo dell’offerta, determina, da parte dei paesi fornitori di gas e petrolio, minori investimenti, minore produzione e, conseguentemente, prezzi più elevati. Si tratta di una sorta di trigger (grilletto) della crisi energetica in corso. Nel condurre le politiche di riduzione della CO2, l’Ue continua a mantenere un’alta dipendenza energetica dall’estero, con importazioni nette pari al 57,5% dei suoi consumi, quota che sale all’83,6% per il gas naturale e al 97% per il petrolio greggio.

Sono poco efficaci interventi unilaterali contro il cambiamento climatico. L’Unione europea emette solo il 7,9% delle emissioni di gas serra, circa un quarto del 30,7% della Cina e poco meno della metà del 13,8% degli Stati Uniti. Di conseguenza, sono necessarie rigorose politiche di riduzione dell’impatto ambientale, ma coordinate a livello mondiale.

La produzione di energia da fonti rinnovabili e di auto elettriche genera tensioni sulla domanda e sui prezzi di ‘minerali critici’ quali rame, litio, nickel, manganese, cobalto, zinco e terre rare. Di conseguenza salgono i costi degli input produttivi mentre crolla la produzione di autoveicoli: tra il 2019 e il 2022 i prezzi in euro delle commodities no energy sono saliti 73,8% mentre la produzione di autoveicoli in Unione europea è crollata di un terzo (-33,3%).

Ancor prima dell’invasione dell’Ucraina, nonostante gli obiettivi green imponessero la riduzione del consumo del carbone, Germania e Polonia, i due paesi che concentrano il 70,1% dell’elettricità prodotta con il carbone nell’Unione europea – hanno registrato aumenti a doppia cifra della produzione di energia elettrica utilizzando questa fonte più inquinante.

I principi generali della politica ambientale europea, a cui si dovrebbero conformare gli interventi fiscali del Green Deal, prevedono una tassazione basata sul principio ‘chi inquina paga’. Alla prova dei fatti, però, tale principio risulta ampiamente disatteso. Nel confronto tra le due maggiori economie manifatturiere europee, l’Italia registra una intensità di emissioni del 28,7% inferiori a quelle della Germania a fronte di una tassazione ambientale superiore del 77,8% (1,3 punti di PIL in più rispetto all’1,7% della Germania).

Last but not least, nonostante le famiglie e imprese italiane abbiano pagato in bolletta elettrica circa 9,7 miliardi di euro all’anno per oneri di sistema che incentivano la produzione di elettricità da fonti rinnovabili, nell’arco dell’ultimo quinquennio la quota di energia elettrica prodotta con il solare in Italia è risultata poco dinamica (+0,3 punti), mentre la Spagna, collocata anch’essa nella fascia meridionale europea e omogenea per irraggiamento solare, nello stesso arco di tempo registra un aumento di 4,7 punti percentuali della quota di produzione elettrica da solare.

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