“I giovani non vogliono più lavorare e per questo le imprese oggi non trovano personale”.

Seguendo il flusso del dibattito pubblico degli ultimi mesi sembra questo il racconto dominante che dipinge l’attualità del mercato del lavoro italiano. In realtà non ci vuole molto a intuire che le cose sono un po’ più complesse. A partire dal fatto che un cambiamento nelle preferenze individuali dei giovani non significa automaticamente una rinuncia al lavoro. E a questo si aggiunge, forse dinamica ancora più importante, che stanno arrivando al pettine infatti alcuni nodi legati ai cambiamenti demografici che portano a pensare che, più che la scomparsa del lavoro a causa della tecnologia come spesso eccessivamente predetto, il problema oggi sia quello della scomparsa dei lavoratori a cause dello svuotamento delle coorti anagrafiche più giovani. Milioni di giovani in meno negli ultimi anni, a causa del calo della natalità sommato alle corpose emigrazioni. Una dinamica che potrebbe incidere (e sta già incidendo) notevolmente sulla qualità del lavoro in quanto le persone più competenti, da un lato, ma anche quelle meno competenti e che svolgono lavori routinari dall’altro, potrebbero richiedere maggiori standard di qualità (non solo salariale ma anche in termini di organizzazione del lavoro, orari, turnistica ecc.) spendendo il maggior potere contrattuale da essi posseduto in virtù proprio del fatto che i lavoratori potenziali sarebbero di numero ridotto rispetto all’offerta di lavoro.

In crescita dimissioni, nuovi contratti e turnover 

Un fenomeno che si inizia ad osservare seguendo la dinamica del fenomeno, invero ancora limitato in Italia ma costante, della crescita delle dimissioni che si sposano con una crescita delle nuove attivazioni di contratti di lavoro a dimostrazione di una crescita del turnover e dei flussi tra diversi posti di lavoro.

In questo la domanda di lavoro generata dalle nuove tecnologie rende le competenze dei lavoratori una merce rara e aumenta ulteriormente il loro potere contrattuale, con quali conseguenze ancora non lo sappiamo, ma potenzialmente interessanti. Il tutto probabilmente reso ancor più marcato dalle nuove consapevolezze che la pandemia ha introdotto rispetto al ruolo che il lavoro può avere nella vita e rispetto ad un certo modello di lavoro estrattivo di tempi, energie e interiorità che è andato sviluppandosi negli ultimi anni.

Come avvicinare i giovani all’azienda 

Dobbiamo allora rinunciare ad attrarre giovani nelle imprese?

Al contrario, la sfida di oggi è ripensare al lavoro trainati dalla domanda di lavoro che muta le sue coordinate e le sue preferenze. Una delle strategie potrebbe essere quella di iniziare a farsi conoscere dai giovani prima della fine del loro periodo di studi attraverso formule strutturate come l’apprendistato di primo e terzo livello, così che la distanza tra le immagini che si costruiscono inevitabilmente al di fuori del luogo di lavoro possano confrontarsi con la realtà, magari intervenendo su alcuni pregiudizi.

Ripensare ai modelli organizzativi

Ma le imprese devono anche ripensare ai loro modelli organizzativi, che non possono fondare la loro sostenibilità su un utilizzo dei loro collaboratori eccessivo, ossia dando per scontato che le ore di lavoro possano andare normalmente oltre quando previsto dal contratto, che vita privata e lavoro si sovrappongano costantemente ecc. Questo potrà anche accadere ad un certo punto del rapporto di lavoro, come scelta consapevole di lavoratori che sposano un progetto, ma al di fuori di questa dinamica (che si costruisce nel tempo, con la fiducia e con una vera partecipazione alla gestione dell’impresa) il rischio è solo quello di generare disaffezione rapida.

Già iniziare a parlare con i giovani, conoscerli, capirli potrebbe essere un primo passo non solo per andare loro incontro, ma per approfittare di questa situazione di cambiamento per rendere più sostenibili le nostre imprese e quindi, nel medio termine, più produttive.