Il cibo è una pratica sociale prima che un’industria, prima che un sistema di relazioni sociali che si spogliano dell’intricazione in società naturali, come la famiglia e le società segmentate, per divenire pratiche indotte dal controllo biopolitico sempre più incisivo nelle nostre società tardo-capitalistiche. Nelle società in cui i consumatori vengono addestrati a produrre desideri, così da alimentare la macchina del profitto e della rendita.
Il cibo è divenuto, in questo contesto, una liturgia della nuova religione che si dipana nel vuoto del sacro, ma che ha sempre più adepti fedeli e fanatici: la religione (senza fede) della salute, della vita sottratta alla Provvidenza Divina per essere tutta determinata dai comportamenti umani
Comportamenti che, nel caso della società digitale e dello spettacolo, sono disintermediati dalla relazione personale e scaraventati nell’universo liberista di tanti Robinson Crusoe che si credono dio (con la “d” minuscola).
È tempo, allora, di rileggere il testo seminale di Mary Douglas, maestra dell’antropologia e dell’analisi organizzativa, autrice di “Purity and Danger. An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo”, edito per la prima volta nel 1966 (e ristampato, con tutta la sua opera, dalle Edizioni del Mulino in Italia). È di grande attualità per comprendere il plesso simbolico in cui siamo immersi e di cui la nutrizione e i suoi “pericoli” costituiscono un orizzonte significativo, determinante della vita psichica dell’odierna umanità.
Oggi è tempo di martellante creazione di un landscape simbolico fondato sull’eternità della vita, un’eternità che ogni persona umana può raggiungere purché segua una dieta e osservi prescrizioni comportamentali nei rapporti con il tempo e lo spazio
Prescrizioni che impongono ginnastiche, meditazioni e soprattutto, lo ripeto, un’alimentazione adeguata a raggiungere la “vita eterna”. La persona umana si è sostituita alla Provvidenza: nel comportamento umano-sociale risiede il segreto della vita eterna e quindi della salvezza.
Mary Douglas analizzava, attraverso la creazione di una tassonomia significativa, gli immaginari collettivi del rischio e del pericolo relativi alle contaminazioni possibili attraverso l’alimentazione: una tassonomia fondata sull’analisi comparata delle religioni e dei sistemi simbolici che costituiscono ciò che “viviamo” come “impurità e pulizia”. La tesi di fondo è che queste definizioni simboliche, nella loro diversità formale e intrinseca, sono necessarie per riprodurre le strutture di senso via via attive in ogni tipo di società. Si pensi ai divieti alimentari dell’Antico Testamento: non si tratta di semplici prescrizioni igieniche ma, a un livello più profondo, di un’istituzione che definisce ciò che si può accettare e ciò che è inaccettabile, manifestandosi nella forma di un ordinamento morale collettivo che si traduce in un sistema simbolico socialmente riconosciuto e che regola il comportamento sociale di un determinato gruppo umano.
In quest’ottica, margine, confine, soglia sono sinonimi di ambiguità, incertezza e quindi di potenziale pericolo. Anche i rituali di purezza incentrati sulla sessualità creano le distinzioni di genere del corpo umano in accordo con la distinzione sociale: i tabù sono quindi macchine di controllo degli impulsi che individuano le ambiguità e le traspongono nell’ambito del sacro.
Oggi tutto questo universo di dispositivi di classificazione delle norme sociali dell’alimentazione e degli scambi sessuali è in profonda ridefinizione. Ci si invita a cibarsi di insetti un tempo considerati impuri per eccellenza
Nell’universo simbolico delle relazioni e degli scambi sessuali, invece, le distinzioni di sesso sono state sostituite da differenziazioni di genere che sconvolgono le analisi antropologiche classiche sulla parentela e sullo scambio matrimoniale. Gli stessi concetti di purezza e di sacralizzazione che vietavano comportamenti alimentari e sessuali secolarmente determinatisi, sono oggi continuamente trasformati. I confini delle società non hanno più regole fondate sui tabù e sulla difesa dalla contaminazione, ma invece sull’attraversamento di quelle che un tempo erano roccaforti proibite con una nuova immagine simbolica che neppure la pandemia ha travolto, ma che anzi, per molti versi, ha incentivato, come accade proprio nei tempi apocalittici e su cui Ernesto De Martino ha scritto pagine indimenticabili e sempre attualissime.
Dal cibo all’eternità costruita dall’umano: ecco il nuovo orizzonte con cui dobbiamo misurarci. Per questo è importante, anche in questo caso, tenere la barra dritta verso quelle mete che lo Spirito Artigiano ci indica. È possibile, infatti, grazie all’azione sociale collettiva e alla convinzione morale personale, (anche attraverso quella forma primordiale, e poi via via sempre più moderna e industrializzata, costituita dall’alimentarsi, ossia dal cibarsi), indicare e già costruire una diversa forma di riorganizzazione sociale e quindi di vita. Lo compresi pienamente più di vent’anni fa nello stabilimento di Pomigliano della AVIO, stabilimento che era la clinica dove si curavano (sì, riparavano amorosamente) gli enormi motori aerei che venivano lì inviati. Per circa dieci mesi, mentre svolgevo le mie ricerche etnografiche sulla vita e il lavoro operaio, mangiavo ogni mezzodì in mensa: una mensa che era organizzata su due turni di circa mille “divoratori di cibi” ancora oggi indimenticabili (gli operai espertissimi del territorio napoletano). Ebbene: le signore della mensa acquistavano loro stesse, su mandato di un severissimo e burbero direttore generale, i prodotti alimentari dagli agricoltori locali e consigliavano fermamente (è il caso di dirlo) il consumo di alcune proposte di piatti rispetto a tutte le altre da loro non direttamente gestite. La pasta al pomodoro, il cui profumo rincuorava gli operai (e i dirigenti, perché tutti mangiavamo allo stesso desco e alle stesse ore) dell’immenso stabilimento sin dalle prime ore del mattino, era la porzione preferita e più sana. Bisognava prenotarsi secondo un orario ferreo proprio perché ciò fosse possibile. Era come andare a messa, era come compiere una liturgia… che riapparisse quel senso del sacro che altrove credevo perduto?
Rimane l’esempio di quelle signore e di quei direttori di stabilimento che erano personaggi meravigliosi. Un esempio che mi sono sempre portato dentro di me.
Oggi sono diffusissime proposte alimentari gestite da piccoli produttori, coltivatori, ristoratori. Esistono associazioni che hanno ormai una lunga storia nella lotta per un’alimentazione e produzione agricola consapevole: la filiera inizia dai campi, passa per la produzione alimentare su larga scala e termina sulle nostre tavole, sia in famiglia sia nei ristoranti. Anche qui l’associazionismo cooperativo e artigiano sono un esempio sempre più solido di resistenza e di organizzazione sociale comunitaria. Resistere è vivere bene: come mi insegnarono le cuoche dello stabilimento di Pomigliano.
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Giulio Sapelli
Giulio Sapelli, già Professore ordinario all’Università degli Studi di Milano ed editorialista, unisce economia, storia, filosofia, sociologia e cultura umanista in una sintesi originale e profonda. Ha insegnato in Europa e nelle Università delle due Americhe, in Australia e Nuova Zelanda. I suoi lavori sono stati tradotti in tutto il mondo.
E’ Presidente della Fondazione Germozzi ed è impegnato a valorizzare il concetto di Valore artigiano, che è forza di popolo, di persone e di imprese legate da uno spirito unico, il quale esprime la vocazione originaria incline alla creatività e all’amore per la bellezza.