L’obiettivo del reinsediamento manifatturiero nelle aree urbane è stato perseguito solo marginalmente dalle politiche pubbliche, sebbene non manchino esempi in diverse metropoli globali, ancora prima che la pandemia e le crisi geopolitiche contribuissero a ridisegnare la geografia delle filiere produttive globali.

Per me ha rappresentato allo stesso tempo un obiettivo politico-amministrativo del mio mandato assessorile milanese, dal 2011 al 2021, e oggetto di studio e ricerca da economista appassionata dello sviluppo locale.

Ed è quindi da alcuni esempi virtuosi che vorrei riferirmi in questo contributo, riprendendo alcune mie considerazioni già ospitate dalla Rivista Dinamiche Territoriali (www.dite-aise.it)

New York vi ha lavorato continuativamente a partire dal primo decennio degli anni Duemila, subito dopo la crisi finanziaria. Il rapporto “Make it here, The future of ma-nufacturing in NYC”, redatto dal Center for an Urban Future un lustro fa, individuava nei settori della stampa in 3D, nelle lavorazioni artigiane ad alto valore aggiunto del legno e dei metalli e nel food una traiettoria di sviluppo produttivo e occupazionale per una città attenta anche al tema della rigenerazione urbana. Anche Parigi ha promosso a partire dal primo mandato della Sindaca Anne Hidalgo un programma che prende il nome di “Fabriquè a Paris” con l’obiettivo di promuovere la diversità e la ricchezza della manifattura parigina. Mentre Barcellona ha promosso una coalizione di fablabe altri attori nel campo della produzione e della formazione, aderendo alla rete delle Fab City.

Sulla stessa scia si è mossa Milano a partire dal 2017 con il Programma “Manifattura Milano” sulla scorta di un ritorno di attenzione al lavoro artigiano, testimoniato dal successo di diverse pubblicazioni sul tema, di mostre come NewCraft a Milano e Homo Faber a Venezia e dalla scelta di diversi marchi in ambito moda e design di valorizzare, anche nella propria comunicazione, i processi produttivi e, dentro questi, il lavoro umano. È come se venisse finalmente sollevato il pesante sipario calato negli anni Ottanta, quando si esaltava la sola dimensione simbolica e edonistica del prodotto, occultando il lavoro che lo genera.

 

Come ho provato a documentare in “Città Prossime”, pubblicato da Guerini nel 2021, l’obiettivo di rendere le città ecosistemi abilitanti per la nascita, l’insediamento e la crescita di imprese nel campo della manifattura digitale e del nuovo artigianato viene perseguito, in diversi contesti urbani, allo scopo di contribuire a generare lavoro buono per il ceto medio, correlato a quello – non secondario – di favorire processi di rigenerazione.

 

Non tutto ciò che si vende o si compra è semplicemente una merce; a volte può capitare di acquistare delle opere. Accade quando il lavoro che c’è dietro un manufatto o una soluzione tecnologica è in grado di determinare il fine del processo produttivo, di controllarlo e non di esserne controllato. Un tempo si sarebbe parlato di lavoro non alienato. Che si tratti di un maker che progetta e costruisce protesi digitali per bimbi disabili o valvole per connettere i respiratori ai flussi di ossigeno, come è successo in Lombardia nella primavera 2020; oppure di un artigiano che produce cappelli-opere su misura delle teste che calzeranno, o di un super-meccanico che restaura auto d’epoca, questi lavoratori hanno in comune una comprensione complessiva del processo produttivo cui si applicano e, soprattutto, vedono una convergenza tra il momento creativo, progettuale, intellettuale della propria attività e quello manuale.

Il rilancio della vocazione manifatturiera urbana, infatti, ha implicazioni rilevanti non solo in termini economici, ma anche sociali.

Prima di tutto contribuisce a dare qualità inclusiva allo sviluppo. Il ritorno (e il rilancio) di attività manifatturiere consente di offrire opportunità di crescita professionale a un’ampia platea di profili che rientra in quella che a lungo abbiamo chiamato classe media. Milano, per esempio, ha offerto possibilità di lavoro non solo a startupper e finanzieri, ma anche a tecnici qualificati, artigiani di nuova generazione capaci di sfruttare Arduino per ripensare le proprie attività, diplomati Its che lavorano fianco a fianco con ingegneri e designer per inventare i prodotti del futuro. In altre parole, la manifattura avanzata è generatrice di quelli che gli anglosassoni definirebbero good jobs.

 

Quando ragioniamo di manifattura urbana, inoltre, chiamiamo in causa il rapporto tra aree urbane e territori produttivi che è stato al centro dello sviluppo industriale del paese, anche nella sua forma di distretto, tipicamente nelle regioni del nord est e del centro Italia.

 

Nel caso di Milano, il rilancio della città manifatturiera suggerisce nuove forme di divisione del lavoro fra il capoluogo lombardo e il Made in Italy su scala nazionale. Se la città diventa lo spazio di contaminazione fattivo fra una tradizione manifatturiera di qualità, di cui la provincia italiana è da sempre portatrice sana, e un’innovazione che si sviluppa sul piano della tecnologia e del design, il contributo di Milano alla crescita del paese si fa più chiaro e leggibile. Contribuendo a ridisegnare, in termini maggiormente coesivi, il rapporto tra aree urbane, città medie e aree interne che, per usare un’espressione di Arnaldo Bagnasco, è andato “fuori squadra” negli ultimi decenni.

 

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