Non succedeva dal 2008 che le elezioni determinassero un vincitore con una maggioranza assoluta di seggi in entrambe le camere. Da un punto di vista sistemico questo è il risultato più rilevante del voto del 25 settembre. Con il 43,8% dei voti alla Camera e il 44% al Senato la coalizione di centro-destra ha ottenuto rispettivamente il 58,8% e il 57,5% dei seggi.  Si tratta della più ampia maggioranza mai ottenuta dal centro-destra nel corso della Seconda Repubblica. Nemmeno Berlusconi aveva fatto meglio nelle elezioni del 2001 e del 2008.  

Questo risultato non è la conseguenza di un allargamento del bacino elettorale del centro-destra. In queste elezioni è vero che il centro-destra nel suo complesso ha preso più voti in percentuale rispetto alle elezioni del 2018 ma non ha preso più voti né in valore assoluto né in percentuale rispetto alle altre elezioni della Seconda Repubblica. Ha preso tanti seggi perché questo sono state le elezioni meno competitive dal 1994. L’indisponibilità/incapacità del Pd di Letta di mettere insieme una coalizione ampia comprendente M5s e le altre formazioni del centro-sinistra ha fatto sì che il centro-destra abbia vinto l’82,3% dei collegi uninominali alla Camera e il 75,7% al Senato.  Questa è in sintesi la spiegazione del risultato di queste elezioni.  

Questa volta nessun terzo o quarto polo ha impedito al sistema elettorale di essere decisivo, cioè di trasformare una maggioranza relativa di voti in maggioranza assoluta di seggi. Ed è un fatto positivo. Il governo Meloni, a differenza di tutti i governi che si sono succeduti a partire da quello di Letta del 2013, nasce nelle urne, come è stato dal 1994 al 2008. Chi pensava che il bipolarismo fosse definitivamente tramontato con l’arrivo sulla scena del M5s si sbagliava.  Il declino del Movimento e il relativo insuccesso del cartello Calenda-Renzi sono i due fattori che, insieme alle scelte coalizionali del Pd, hanno permesso al centro-destra di arrivare alla maggioranza assoluta. 

Con 235 deputati e 115 senatori il governo Meloni ha una solida base parlamentare che dovrebbe consentirgli di durare. Sarà così?  Questo è il punto. Il paese ha un assoluto bisogno di stabilità, cioè di un governo che abbia davanti a sé un orizzonte temporale di cinque anni per poter implementare le riforme avviate e realizzare quelle che vanno ancora fatte per creare le condizioni per una crescita economica superiore a quella che abbiamo avuto negli ultimi venti anni. Il voto ha prodotto una delle condizioni della stabilità. Ora si vedrà se ai numeri di cui dispone il nuovo governo si aggiungerà anche la coesione tra i partiti che lo compongono. I segnali non sono incoraggianti. Quello che è successo in Senato nei giorni scorsi al momento della elezione alla presidenza di Ignazio La Russa è preoccupante. L’ampia maggioranza uscita dalle urne non è stata sufficiente a far eleggere l’esponente di Fdi.  

In questo caso il problema è stato Forza Italia, ma il rischio è che le tensioni all’interno della coalizione non si fermino qui. Il successo di Giorgia Meloni è largamente dovuto al passaggio di milioni di elettori dalla Lega a Fdi. I partiti di centro-destra sono diventati intercambiabili perché una larga fetta dei loro elettori hanno aspettative e posizioni molto simili. Dopo aver votato Berlusconi e Salvini adesso hanno deciso di provare Meloni. Ma non è detto che questa apertura di credito duri a lungo. All’interno del blocco la fluidità è la norma. Meloni non può contare sulla fedeltà indiscussa dei suoi nuovi elettori.  Il suo successo attuale è legato soprattutto alla decisione della Lega di appoggiare il governo Draghi mentre Fdi è rimasta all’opposizione. Non è difficile immaginare che tra i due partiti, ora entrambi al governo, si possa aprire una competizione che ne mini la coesione e quindi la stabilità. 

Insomma, il nostro sistema politico continua registrare una fragilità di fondo che va aldilà delle maggioranze elettorali e dei governi che di volta in volta si creano. Gli attuali partiti e gli attuali leader non sono in grado, con le attuali regole, di contenere le spinte centrifughe che lo caratterizzano. Nonostante i tanti fallimenti del passato è il caso di porsi ancora una volta il problema di un cambiamento delle nostre istituzioni.  La forma di governo parlamentare che abbiamo conosciuto finora non è più compatibile con la attuale destrutturazione del nostro sistema politico. L’esperienza, ormai quasi trentennale, della Seconda Repubblica ha dimostrato che la riforma elettorale da sola non è in grado di favorire la stabilità dei governi. A livello comunale e regionale il problema è stato affrontato e sostanzialmente risolto con l’introduzione di un modello misto di governo, che combina elementi dei sistemi proporzionali e dei sistemi parlamentari.  È un modello peculiare che a quei livelli ha funzionato.  Non è detto che vada trasferito sic et simpliciter a livello nazionale. Può essere adattato introducendo contrappesi che aumentino le garanzie per limitare ulteriormente i rischi di derive illiberali. Paventati dai difensori della attuale forma di governo.  La cosa importante è che se ne discuta e si decida invece di rassegnarsi a convivere con un sistema in cui ‘sopravvivere senza governare’ è la norma. Non possiamo più permettercelo. 

Nella foto: il professore Roberto D’Alimonte commenta il risultato del voto al Match Point di Confartigianato