Le storie d’impresa funzionano, al di là della gratificazione che giustamente tributano a chi col proprio lavoro ha costruito qualcosa di importante, dove raccontano qualcosa che vale anche per altri imprenditori, qualcosa che possa diventare non dico un modello, ma almeno concreta fonte di ispirazione, qualcosa che dice “mi riguarda” e ispira in chi lo legge azione e cambiamento.

La storia di Daniela Diletti, “La Marchigiana”, l’ho sentita per la prima volta raccontata da lei in un piccolo gruppo che si vedeva sul social Clubhouse per condividere storie di imprese artigiane e sono rimasto folgorato: troppi i livelli di lettura, le suggestioni, la polpa della storia per non rimanerci folgorati. Troppi e con una forza straordinaria di essere al contempo paradigmatici (validi anche per altri), con una forza espressiva quasi letteraria, ma con l’incomparabile potenza del vero.

 

Il primo livello di lettura è quello della storia di un’impresa familiare

Il primo livello di lettura è quello della storia di un’impresa familiare, padre (è sua la frase “Io ho scelto di fare il calzolaio perché era l’unico mestiere che mi permetteva di restare dove ero nato” che ho citato in un pezzo precedente), madre e un sacco di scarpe, prodotto nella casa di famiglia a Force, nelle Marche al confine del distretto calzaturiero ma nel pieno di un’economia che è anche cultura, etica, destino familiare. Nella casa in cui la lavorazione delle scarpe è onnipresente, salta agli occhi, alle orecchie, al naso, la famiglia Diletti produce scarpe come terzista, il lavoro va bene e Daniela, l’unica figlia, può studiare Storia dell’Arte (la sua passione) a Torino, mantenendosi agli studi lavorando come cameriera e in un call center (questa informazione verrà buona in seguito).

Nel 2007, lentamente e poi tutto di un fiato come succedono spesso le cose brutte, l’azienda familiare fallisce, vittima della dipendenza dai pesci più grossi che riguarda tanti, troppi artigiani che producono per latri. Fallisce con una famiglia che deve trovare un piano B e un sacco di scarpe in magazzino.

Resilienza, che è un concetto consumato da un utilizzo eccessivo e gratuito, sarebbe stata benissimo qui come termine per descrivere una famiglia, Daniela nel frattempo è tornata a casa a dare una mano, che si reinventa e inizia a battere a tappeto i mercati di tutta Italia per vendere quello che rimaneva del magazzino. E la mossa della disperazione è anche la mossa della ripartenza.

Le scarpe, che faceva un artigiano non dimentichiamocelo, piacciono e senza intermediazioni costano anche il giusto. Poi ci sono i turisti, che d’estate (e sempre più tutto l’anno, riempiono quel pezzo del sud delle Marche che è davvero bello, una piccola Toscana ancora da scoprire. Allora i mercati diventano anche gli alberghi e i campeggi, e i clienti non più solo italiani, ma belgi, francesi e olandesi (torneremo anche su questo). Gabriele, il papà, non crede ai suoi occhi, pensa a quando faceva il terzista e un po’ si dispiace di avere scoperto tardi che le sue non erano solo mani esperte, ma potevano essere un’intera azienda, con una propria identità.

 

Daniela, è il secondo livello di lettura, lascia (lei dice accantona) il progetto di insegnare Storia dell’Arte e inizia a occuparsi a tempo pieno delle scarpe

Daniela, è il secondo livello di lettura, lascia (lei dice accantona) il progetto di insegnare Storia dell’Arte e inizia a occuparsi a tempo pieno delle scarpe. Non è, non potrebbe, un passaggio generazionale pulito e ordinato, ma una figlia che si fa carico dei genitori aprendo un marchio nuovo per i quali loro lavorano: la “Marchigiana”. Lei è un fulmine di guerra, crea le scarpe, le vende nel negozio a Torino e nei popup (torno anche qui), continua a insegnare Storia dell’Arte, ma soprattutto cerca di raccontare non tanto la sua storia, quanto il fatto che fare gli artigiani oggi “è una figata”. Qualcuno senza la sua energia spaventosa e una capacità magnetica di comunicare ascoltando, appresa dice lei dagli anni del call center, forse non ce l’avrebbe fatta, o avrebbe fatto cose molto più semplici. Ma le eccellenze, quando non servono a riempirsi la bocca, fanno questo: si fanno carico di battere le strade non tracciate, anche per chi seguirà.

 

 Il terzo livello è quello di un’impresa artigiana che, dovendosi suo malgrado reinventare, lo fa con intelligenza

Il terzo livello è quello di un’impresa artigiana che, dovendosi suo malgrado reinventare, lo fa con intelligenza, utilizzando quello che nel frattempo il sistema di mercato e la tecnologia hanno messo a disposizione (che sarebbe poco senza la testa e le mani che stanno a Force. Allora un e-commerce basato sui social che è semplice ma funziona (abbastanza da convincere le clienti a dare ad agosto l’anticipo per gli anfibi invernali), un calendario fittissimo di pop up store che non ha paura di andare non solo in giro per l’Italia, ma anche a casa di quei belgi, olandesi e francesi che l’avevano conosciuta nei campeggi nelle Marche e sono ben felici di ritrovarsela a casa, una collaborazione con altre artigiane che produce addirittura un brand collettivo, “Gilda”.

E soprattutto un’ossessione per spiegare, raccontare, formare al proprio lavoro i giovani, che comincia ad essere un tratto distintivo e straordinariamente positivo dei nuovi artigiani.

Perché le storie belle, d’impresa e non, sono fatte di persone.