Ma perché “Le signore non parlano di soldi”? Quando dalla casa editrice mi hanno proposto questo come titolo del mio ultimo libro, l’ho subito amato. Svela un pregiudizio, si incanala nei solchi del luogo comune secondo il quale una donna che parla di denaro sarebbe volgare, poco elegante. In una parola: inadeguata. Ma se noi non parliamo di qualcosa, ecco, allora quella cosa lì non esiste.

E in effetti, nel 2019, la società di ricerca Episteme effettua uno studio, rivolgendo alcune domande a donne e uomini che sono in coppia. Una delle domande è questa: “chi si occupa della gestione degli aspetti finanziari della famiglia?”. A rispondere “Me ne occupo io” è il 55% degli uomini contro il 38% delle donne. Alla domanda “Chi di voi dispone di un reddito personale?” Risponde positivamente l’85% degli uomini e solo il 63% delle donne. Ancora una: “Chi guadagna di più?” Il 63% degli uomini. E appena il 21% delle donne.

Il problema è, ovviamente, molto complesso. Il nostro è un paese nel quale manca (in alcune aree geografiche quasi totalmente) una struttura capillare di servizi per l’infanzia. In cui pochissime sono le scuole che offrono il tempo pieno. E nel quale i compiti di cura non retribuita dei figli, della casa, degli anziani, delle persone malate ricadono quasi esclusivamente sulle spalle delle donne. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, per il 75% del totale, a prescindere dal fatto che lavorino o meno.

 

“In Italia lavora solo la metà della popolazione femminile che potrebbe farlo”

 

Ed è proprio il lavoro un altro ambito di sofferenza delle donne italiane, anche rispetto al denaro. Eh, sì: perché se non si lavora non si guadagna. E a lavorare nel nostro paese è poco più della metà della popolazione femminile che potrebbe farlo. A pesare, il nodo cruciale della maternità, che interrompe i percorsi di carriera e le aspettative professionali solo delle madri e mai dei padri. Si chiama childhood penalty ed è  il meccanismo per cui, sul mercato del lavoro, dal momento in cui diventi madre, le aspettative nei tuoi confronti mutano. E da te ci si aspetta che tu punti tutto sulla maternità, lavori di meno, magari ti accontenti di un part-time. Oppure ti dimetti: stando agli ultimi dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, le dimissioni delle lavoratrici mamme nel 2022 sono cresciute del 19% in un solo anno. E infatti, in Italia, una donna su tre lascia il lavoro dopo il primo figlio. Sicuramente perché è sovraccarica di attività di cura non retribuita da svolgere e non ha sufficienti supporti da parte sia del partner che dello Stato. Ma anche perché sa che, diversamente, dovrà sostenere il peso di una società che la reputa comunque un po’ inadeguata come madre. Stando ai dati della European Values Survey, tra le donne che non lavorano in Europa, il 39% afferma di essere impossibilitata a cercare un lavoro, perché la sua giornata è quasi totalmente occupata dal prendersi cura gratis della casa e dei componenti della propria famiglia. Per l’Italia, questa percentuale sale al 65%.

Le distorsioni che sperimentano le donne italiane sul mercato del lavoro, certo, non sono tutte legate alla maternità (anche se questo, come confermano tutti i dati, è in assoluto il passaggio più problematico che si trovano ad affrontare).

Gli stereotipi che colpiscono la popolazione femminile, infatti, sono vari e numerosi e sono alla base di meccanismi distorsivi come quello della disparità salariale, o gender pay gap. Secondo gli ultimi dati dell’osservatorio INPS sui dipendenti privati, nel 2022 le donne hanno guadagnato, in media, quasi 8.000 Euro in meno rispetto agli uomini, su un salario medio italiano piuttosto basso, ovvero di poco superiore ai 22.000 Euro.

 

“E allora, è tutto perduto? Fortunatamente no, perché molte donne italiane hanno, con il tempo, trovato una propria strategia di riscatto”

 

E allora, è tutto perduto?
Fortunatamente no, perché molte donne italiane hanno, con il tempo, trovato una propria strategia di riscatto. E questa strategia si è basata sulla creazione di una propria attività imprenditoriale. Ancora un dato: in Italia, le aziende guidate da donne sono il 22% del totale (più di un quinto, ma comunque inferiori rispetto alla media europea, che invece si attesta al 32%). E in questo dato sulle imprese, ne troviamo altri incoraggianti, perché creare impresa, per le donne italiane, si configura sempre di più come una reazione positiva ad un mercato del lavoro che non le vede e non le valorizza. E infatti, l’11% delle imprese femminili è fondato da donne sotto i 35 anni. E ancora: il 37% delle imprese femminili viene creata al Sud, dove l’assenza di asili nido è più gravosa e le opportunità lavorative sono più rarefatte. Insomma, una piccola rivoluzione silenziosa, moltissimi focolai, sparsi su tutto il territorio. E una rivoluzione che non è solo lavorativa, ma anche occupazionale, perché le imprese femminili creano lavoro, spesso per altre donne. E che è anche, profondamente, culturale, perché le imprese non sono solo luoghi nei quai si producono beni e servizi, ma anche luoghi in cui si creano e si diffondono valori. E tutti i dati ci dimostrano che le imprese femminili hanno, ad esempio, un approccio più improntato alla sostenibilità e che tendono a valorizzare maggiormente il capitale umano.

E allora, il fatto che le donne del paese non siano messe in condizione di esprimere al massimo il proprio potenziale diventa un problema non solo delle donne, ma del paese tutto.

Per rilanciare non solo l’occupazione e l’imprenditoria femminile, quindi, è necessaria ed urgente una rivoluzione culturale, che metta al centro l’impegno che le donne di questo paese profondono ogni giorno. E, da parte delle donne stesse, una consapevole occupazione degli spazi e degli ambiti che, sinora, sono stati loro preclusi.

Insomma, signore: iniziamo a parlare di soldi!!

 

Foto di Max Rahubovskiy