L’aumento dei flussi turistici, anche grazie all’incremento degli appartamenti affittati ai turisti per brevi periodi, sta avendo un impatto dirompente sugli ecosistemi urbani. Questo fenomeno ha ripercussioni non solo sui residenti, ma anche sull’intero tessuto imprenditoriale nel quale operano le attività artigiane.

Abbiamo scelto di approfondire questo tema con uno dei maggiori esperti del settore, il Prof. Filippo Celata, ordinario di Geografia Politica Economica all’Università La Sapienza e autore di numerose ricerche sul rapporto tra piattaforme digitali e turismo urbano, sull’impatto degli affitti brevi nelle città italiane, e sulle forme e gli effetti della regolamentazione delle locazioni turistiche nelle città europee, pubblicate su diverse riviste internazionali quali Urban Studies, Annals of Tourism Research, Cambridge Journal of Regions, Journal of Sustainable Tourism.

 

Il calo dei residenti nei quartieri centrali delle città è la causa o l’effetto dell’aumento delle locazioni brevi?

«I due fenomeni sono strettamente associati, ma in base a studi che abbiamo condotto su diverse grandi città turistiche italiane abbiamo evidenze che indicano che lo spopolamento dei centri delle città sia causato dall’incremento delle locazioni turistiche.

Questi studi mostrano che la diffusione degli affitti brevi è responsabile tra circa il 70 e il 90% dello spopolamento osservabile negli anni immediatamente precedenti la pandemia. Analizzando queste dinamiche demografiche e residenziali, si nota chiaramente una perdita di popolazione nelle zone a più alta intensità di conversione di appartamenti residenziali in affitti brevi.

Sappiamo bene che lo spopolamento dei centri storici non inizia certamente con la diffusione degli affitti brevi, perché si tratta di un fenomeno che ha conosciuto nel secondo dopoguerra diverse fasi. Negli anni ‘50 abbiamo assistito chiaramente a tassi di spopolamento dei centri storici persino maggiori. La creazione di nuovi quartieri ha fatto sì che parte della popolazione si spostasse dal centro alle nuove zone. Successivamente abbiamo avuto un massiccio fenomeno di conversione di unità immobiliari residenziali in attività terziarie e commerciali. I centri storici sono stati poi oggetto di investimenti in immobili che poi spesso rimangono inutilizzati. Tuttavia, se consideriamo il caso di Roma, le dinamiche di spopolamento si erano ridotte, in base ai dati ISTAT, e negli anni ‘90 e 2000 si erano del tutto arrestate, mentre poi in soli 5-6 anni i quartieri centrali hanno perso più di un 1/3 dei loro residenti. Sappiamo che la funzione residenziale nei centri storici è particolarmente vulnerabile, e dovrebbe per questo essere ancora più attentamente tutelata: le unità immobiliari in queste aree hanno infatti dei costi molto elevati e degli ingenti costi di manutenzione.

Oggi mentre molti proprietari scelgono di affittare le case ai turisti con affitti brevi, in contemporanea aumentano gli investitori che comprano un gran numero di appartamenti al solo scopo di affittarli ai turisti. In questo modo, aumenta il rischio che questi effetti sull’ecosistema urbano siano difficilmente reversibili

Dopo la pandemia, il settore immobiliare ha ricominciato a rappresentare un investimento sicuro rispetto alle incertezze che riguardano altri investimenti finanziari e quindi la turistificazione ha garantito maggiori introiti.

Quindi, in sintesi, lo spopolamento dei centri delle città è sicuramente favorito dagli affitti brevi, ma fa parte di un fenomeno complesso. Per questo se riducessimo la pressione degli affitti brevi non risolveremmo immediatamente tutti i problemi, ma potrebbe essere un inizio, un segnale di attenzione ai centri storici».

 

Come impatta questo fenomeno dell’aumento delle locazioni brevi sui servizi per i residenti? E sull’artigianato e il commercio?

«Proprio su questo aspetto è uscito recentemente uno studio molto interessante sul Cambridge Journal of Regions, che analizza il caso di Madrid, una città turisticamente paragonabile a diverse città italiane. Lo studio dimostra che nelle aree dove gli affitti brevi sono più numerosi si riducono le attività commerciali destinate agli abitanti, le imprese artigiane di servizi alla persona e persino i servizi per l’infanzia.

Aumenta, invece, il settore della ristorazione e in secondo luogo i negozi di abbigliamento, nonché, ovviamente, aumentano i servizi che sono esclusivamente destinati ai turisti.

Anche all’interno della ristorazione aumentano in particolare i luoghi dove si vendono pasti già pronti, o dove i cibi sono serviti al bancone, mentre cresce meno il numero di ristoranti con cucina e servizio al tavolo. Nei luoghi della turistificazione si può dire quindi che, più in generale, la commercializzazione di beni prodotti altrove prevale sulla produzione.

I luoghi di produzione vengono “espulsi” dal centro, e non per mancanza di apprezzamento da parte dei turisti, ma perché non riescono a tenere il passo con le dinamiche dei valori immobiliari che sono in qualche modo alimentate dalla turistificazione.  Ed è evidente la difficoltà delle attività che non riescono a garantire un’adeguata redditività, non riescono a stare sul mercato anche se il loro prodotto è apprezzato, come appunto è il caso di molte attività artigianali.

Un’altra caratteristica dell’economia a vocazione esclusivamente turistica è che aumenta l’omogeneità, cioè si riduce la diversificazione delle attività commerciali e artigiane.

La diversità non è solo sinonimo di qualità, ma anche per esempio di buona salute del tessuto economico e sociale, nonché di resilienza. Sappiamo bene come i luoghi eccessivamente specializzati – come ha dimostrato la pandemia  –  hanno chiaramente poche possibilità di resistere a shock esterni.

Un’altra conseguenza della turistificazione delle zone urbane è la brevità del ciclo di vita delle attività commerciali, che rapidamente vengono sostituite da nuove attività: aumentano per questo i tassi di mortalità delle imprese e si riduce la loro natalità

Occorre smettere di considerare il turismo in termini soltanto quantitativi. È evidente che il turismo crea ricchezza in senso quantitativo, ma innesca anche processi che travolgono le attività economiche e le comunità. Bisogna valutare questo fenomeno anche in termini qualitativi, valutando la vera ricchezza che crea valore per i luoghi, per le imprese e i residenti».

 

Da più parti si propone di dare ai sindaci la facoltà di limitare le locazioni brevi. Cosa pensa di questa possibilità e quali sistemi possono esistere per limitare o regolamentare questo fenomeno?

«La regolamentazione non va intesa necessariamente come limitazione. Tutte le attività economiche sono sottoposte ad alcune forme di regolamentazione, nell’interesse stesso di una competizione sana all’interno dei singoli settori di attività, ma anche tra diversi settori di attività economica. Una buona regolamentazione aiuta le attività economiche.

Prima dell’avvento di alcune piattaforme come Airbnb, questo fenomeno era talmente marginale che nessuno ha mai pensato che dovesse essere in qualche modo regolato.  Con l’esplosione del fenomeno
ci si è trovati in una situazione un po’ paradossale, per cui queste forme di affitto non erano sottoposte a nessuna regolamentazione a differenza di affittacamere, bed&breakfast e hotel, che devono rispettare diverse normative.
Le locazioni brevi sono chiaramente attività di ricettività turistica, quindi occorre chiarire in quale quadro questa attività vada svolta. Quindi, più che limitare l’attività, occorre chiarirne il perimetro. La legislazione italiana già riconosce la locazione breve se svolta a livello non imprenditoriale, cioè con un livello di intensità relativamente contenuto, ma di tale principio generale non corrisponde alcuna effettiva applicazione. I principali criteri di limitazione adottati in Europa sono un limite temporale e uno zonale. Il limite temporale consiste nel fissare un limite al numero di giorni l’anno di esercizio, oltre il quale l’attività si considera imprenditoriale e deve ottenere una licenza diversa. Il limite zonale regola il numero affitti brevi nei centri e incentiva il loro spostamento in zone della città meno congestionate.   In Italia nell’ottica di una vera e propria regolamentazione, simile a quella in vigore in ormai quasi tutte le città europee, non si è fatto assolutamente nulla. Si sta costituendo una banca dati delle locazioni brevi ma ancora non è operativa».

 

Le altre città europee come si sono regolate?

«Abbiamo fatto uno studio analizzando le 16 più grandi città turistiche europee e ormai quasi tutte queste città – le ultime sono state le città portoghesi –  hanno inserito un limite temporale o zonale alle locazioni brevi, e richiedono per queste attività una licenza e non un semplice sistema di registrazione. In alcune città è stato introdotto un obbligo di residenza per il proprietario che desidera svolgere questa attività in forma non imprenditoriale. Questo ha sfavorito il proprietario che fondamentalmente affitta il proprio appartamento per mezzo di società intermediarie e l’attività di gestori che svolgono questa attività per una pluralità di appartamenti.

In altre città sono stati fatti degli accordi di cooperazione con le piattaforme di prenotazione, che si sono impegnate a bloccare gli annunci irregolari cancellandoli dalla piattaforma.

In Italia manca una legge nazionale e c’è un problema estremamente complesso di suddivisione delle competenze, perché il turismo è di competenza normativa regionale, mentre la locazione è di competenza nazionale. Si auspica che questo venga chiarito da una legge nazionale.

In mancanza di una legge nazionale si potrebbe tentare di procedere per via urbanistica, come sta provando a fare il Comune di Firenze, utilizzando degli strumenti nelle sue facoltà, di tipo urbanistico, per impedire la registrazione di ulteriori locazioni turistiche nella zona UNESCO del centro storico, rifacendosi al Testo Unico per l’Edilizia.

È fondamentale ricordare che la chiarezza normativa va a vantaggio degli stessi imprenditori».

 

Un’ultima domanda: esiste un modello buono e virtuoso di un ecosistema turistico in una logica “win-win”, vantaggioso per tutti, per i residenti, i turisti e le imprese?

«Occorre fare passare il messaggio che il turismo comporta tanti benefici ed è una fantastica attività di scoperta e di incontro, ma ha anche dei risvolti negativi. Va compreso che quella turistica è divenuta con gli anni, in alcune località, l’unica possibilità di specializzazione di economie che hanno via via perso altre forme di specializzazione economica. Laddove il numero di turisti è enorme questa attività entra in conflitto con altre funzioni. Per questo Marco d’Eramo ha giustamente definito il turismo come un’industria pesante.

Il turismo è un’attività estremamente forte anche nella sua capacità di creare ricchezza ma estremamente impattante sui contesti territoriali.

Oltre ad una regolamentazione degli affitti brevi occorre sperimentare nuove forme di governo. È sbagliato creare limitazioni di numero di accessi in certi luoghi, attraverso “zone rosse” o tornelli. La soluzione è esattamente opposta: evitare di fare diventare i centri dei “parchi a tema”, regolando ad esempio la capacità ricettiva, stabilendo, come ad esempio si sta provando a fare in alto Adige o ad Amsterdam, un limite oltre il quale è necessario intervenire.

È necessario sperimentare nuovi modelli di gestione, e valutarne gli effetti. Ci vuole molta fantasia, consapevolezza e volontà politica. E non è detto che una soluzione che va bene in un luogo sia adeguata anche per altre località. Occorre sperimentare nuove forme di governo del turismo che siano adatte alle esigenze di ciascun territorio».

 

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