L’Italia è uno dei Paesi dove l’aspettativa di vita è più alta. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, figura decima al mondo e al quarto posto nell’Unione Europea, dopo Lussemburgo, Svezia e Spagna. Eppure, il miglioramento progressivo dell’aspettativa di vita, aumentata negli ultimi 20 anni da 80,7 a 83,1 anni (+2,4 anni) è più che compensato dal peggioramento dell’aspettativa di vita in buona salute, scesa dal 2004 al 2023 da 69,9 a 67,4 anni (-2,5). In altri termini, come avverte anche l’Istat, gli italiani vivono sempre più a lungo ma spesso in condizioni di salute più precarie e cagionevoli.

Questo apparente controsenso è solo uno dei tanti paradossi che caratterizzano il nostro sistema sanitario: un modello che, sulla carta, si distingue per qualità e accessibilità, ma che deve affrontare sfide sempre più complesse per rispondere ai bisogni di una popolazione in cambiamento.

I risultati straordinari nell’allungamento della vita media, ottenuti grazie a un sistema sanitario universalistico e gratuito, creato a immagine e somiglianza del National Health Service inglese, alle innovazioni terapeutiche e tecnologiche e alla pratica clinica resa possibile da un ecosistema delle Life Sciences tra i più avanzati a livello europeo e globale, sono messi alla prova dalle tante sfide, di sostenibilità, accesso, capitale umano e digitalizzazione tra le altre, alle quali è sottoposto il nostro sistema-salute.

Una prima sfida riguarda la sostenibilità del sistema, e in questo campo l’aspetto socio-demografico si intreccia con quello economico.

 

Nel nostro Paese, secondo solo alla Grecia in termini di rapporto tra debito pubblico e PIL, e con una produttività sostanzialmente ferma – tra il 2000 e il 2023 il valore aggiunto per ora lavorata in Italia è cresciuto dell’1%, rispetto al 14% della Francia e al 22% della Germania -, le prospettive di crescita limitate e i vincoli di bilancio riducono drasticamente la capacità di investire anche in sanità.

 

D’altra parte, in Italia l’età media è aumentata (e dai 46,6 anni salirà fino a 50,6 anni nel 2050) e il tasso di fertilità è sceso a 1,2 figli per donna, ben al di sotto della soglia di sostituzione demografica di 2,1, cosicché la percentuale della popolazione anziana, spesso fragile e affetta da comorbidità, è destinata a crescere ulteriormente e aumentare il suo peso sul sistema sanitario e di welfare: secondo il modello previsionale del think tank Meridiano Sanità di TEHA, nel 2050 il 75% della spesa sanitaria pubblica si concentrerà negli over-60.

Il calo della natalità e l’allungamento dell’aspettativa di vita portano a un progressivo invecchiamento della popolazione con un conseguente aumento dei bisogni di salute e delle spese previdenziali e assistenziali, unito a una riduzione del gettito fiscale, rendendo indispensabile un’accelerazione della crescita economica per controbilanciare tali pressioni e preservare la sostenibilità economica del sistema, oltre che del Servizio Sanitario Nazionale.

Una seconda sfida per il nostro sistema-salute concerne le disomogeneità di accesso all’innovazione.

Negli ultimi decenni, la medicina ha conosciuto un’evoluzione senza precedenti, con innovazioni tecnologiche e farmacologiche che hanno trasformato il panorama della diagnosi e della terapia, aprendo nuove prospettive in termini di sopravvivenza e qualità di vita dei pazienti. L’Italia in particolare è al secondo posto (dopo la Germania) in Europa per numero di farmaci resi accessibili ai pazienti sul territorio nazionale sul totale dei farmaci approvati a livello europeo e, tra i principali Paesi Europei, al terzo per il tempo medio di accesso (dopo Germania e Inghilterra) – e in progressivo miglioramento.

Tutte queste innovazioni richiedono in primis investimenti enormi da parte degli attori pubblici e privati: il processo di sviluppo di un farmaco è molto lungo (12-13 anni dalla prima sintesi all’accesso al mercato), costoso (circa 3,1 miliardi di euro per ciascuna soluzione terapeutica) e pure molto rischioso, dato che solo 1 o 2 sostanze su 10.000 superano tutte le fasi di sviluppo necessarie per entrare in commercio.

In secondo luogo, come evidenzia la letteratura, l’accesso ai farmaci dipende da una combinazione di fattori di contesto, strutturali e normativo-regolatori. Combinazioni che, in Italia, tendono inevitabilmente a moltiplicarsi laddove, se da una parte le condizioni di accesso sono negoziate e definite dallo Stato a livello centrale, dall’altra sono le singole Regioni a dover implementare le direttive nazionali, ad esempio rispetto alla scelta dei centri prescrittori di un farmaco, alla gestione degli acquisti attraverso le centrali di committenza e, in generale, all’amministrazione della spesa sanitaria.

Alla base delle difformità nell’accesso ci sono dunque sistemi di accesso regionale differenti: alcuni passaggi, a partire dalle procedure di gara per l’acquisto dei nuovi farmaci, accentuano le disuguaglianze regionali esistenti, che derivano da una serie di elementi demografici, epidemiologici, organizzativi e, non ultimo, economici: nel decennio 2012-2023, a fronte di un aumento nazionale del PIL pro capite da 25.729 euro a 36.078 euro, il valore medio nelle Regioni del Nord si è mantenuto 1,8 volte maggiore rispetto a Sud e Isole. Il benessere socio-economico dei cittadini condiziona l’accesso alle cure, al punto che nel 2023 il 6% degli uomini e il 9% delle donne hanno rinunciato almeno in parte alle prestazioni sanitarie, con percentuali ancora più alte nel Mezzogiorno.

Altre difficoltà che incontra il nostro Servizio Sanitario Nazionale concernono la perdita di attrattività del nostro Paese per il personale sanitario e di ricerca. Anche in questo caso, la situazione può apparire “paradossale”: da un lato l’Italia può contare su moltissime Istituzioni, centri di ricerca, università e ospedali di eccellenza, che danno lavoro a centinaia di migliaia di persone  – con oltre 625.000 dipendenti il SSN è la seconda azienda del Paese dopo la scuola – e nel 2023 i ricercatori italiani in campo medico erano al primo posto nell’Unione Europea sia per numero di pubblicazioni che per numero di citazioni pro capite; dall’altro, le difficili condizioni lavorative, unite a una percezione di basso riconoscimento professionale, hanno reso l’attività clinica o di ricerca meno attrattive per i giovani specialisti, soprattutto per alcune aree, ma anche per i medici di medicina generale e per gli infermieri. I dati relativi all’assegnazione delle borse di specializzazione medica per il 2024 confermano una crisi di attrattività per la professione medica: su 15.256 contratti di specializzazione disponibili, ne sono stati assegnati solo 11.392, pari al 74,7%; in altre parole, oltre un quarto delle borse è rimasto inutilizzato.

Non ultimo, ci si scontra con la difficile sfida della digitalizzazione del sistema. Tra i principali benefici che la sanità digitale può apportare al funzionamento del SSN, vi è il miglioramento dell’equità e dell’accesso alle cure e ai servizi del sistema sanitario. Come sottolineato anche dal Ministro della Salute Orazio Schillaci, infatti, la digitalizzazione della sanità porterà al superamento di molti ostacoli di tipo non solo geografico, ma anche sociale, economico e culturale, che hanno finora limitato l’accesso uniforme alle cure per ampie fasce della popolazione; queste considerazioni sono alla base della scelta di investire una quota parte dei fondi della Missione 6 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) nel Fascicolo Sanitario Elettronico, nella telemedicina e in altri misure rivolte alla informatizzazione e digitalizzazione della sanità.

Tuttavia, eccetto per alcuni segnali positivi, anche su questo punto la strada appare in salita: a seguito della pandemia, l’e-prescription in Italia ha raggiunto un buon livello di utilizzo (85% della popolazione), mentre il servizio di e-booking è ancora poco utilizzato (solo il 28,8% della popolazione contro una media europea del 39,9%). Per quanto riguarda il Fascicolo Sanitario Elettronico, solo il 27,6% della popolazione ha riportato, nel 2022, di averne usufruito (dato che sale al 32,8% nella fascia di età 25-54 anni), mentre in Europa, mediamente, il servizio è utilizzato dal 34,2% della popolazione.

 

Nostre elaborazioni su dati Anaao Giovani e Associazione Liberi Specializzandi – ALS, Commissione Europea, EFPIA, Global Burden of Disease, Istat, Ministero della Salute.

Per approfondire i temi trattati si rimanda a: The European House – Ambrosetti (2024), “XIX Rapporto Meridiano Sanità”.

 

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