Il 6 Dicembre presso la residenza dell’Ambasciatore di Germania a Roma si è tenuta la cerimonia per assegnare il Premio di Eccellenza Duale [1].
Prima che un evento celebrativo, è stato un momento importante per condividere le buone pratiche in essere nei nostri Paesi e, per noi italiani, conoscere meglio e riflettere sulle particolarità riguardanti il sistema di istruzione e formazione tedesco.
Non esiste una graduatoria assoluta su quale sia il sistema di istruzione migliore o peggiore, poiché ciascuno di essi risponde a processi storici diversi ed alle caratteristiche sociali ed economiche di un Paese.
Non possiamo, tuttavia, nascondere che la situazione del nostro sistema di istruzione e formazione sia arrivata ad un punto di svolta, tra l’opportunità di mantenere le caratteristiche che, negli anni passati, hanno fatto della scuola italiana una delle migliori al mondo e la necessità di innovarsi profondamente per stare al passo con i tempi.
L’occasione, quindi, è stata ‘ghiotta’ per discutere di temi di interesse strategico quali la Formazione, l’Apprendistato ed, appunto, la Formazione Duale che organizza il rapporto Scuola-Lavoro in Germania.
Quello che ci interessa cogliere dalla configurazione tedesca della ‘formazione duale’ non è l’aspetto strutturale e giuridico, poiché esso è chiaramente legato alle caratteristiche del Paese.
Ci piace sottolineare, invece, la logica che ‘guida’ la Formazione duale Tedesca e più in generale tutto il sistema di formazione e istruzione presente in Germania (ma anche di altri Paesi ad economia avanzata). Questa logica si fonda su una lunghissima tradizione che unisce pratica e teoria e che interpreta la dinamica Scuola e Lavoro senza soluzione di continuità.
Una impostazione che potrebbe essere di semplice applicazione anche da noi. Ma che , di fatto, non lo è.
Certo: in questi anni tanto è stato fatto anche in Italia per collegare maggiormente il mondo della Scuola al mondo del Lavoro (pensiamo alla alternanza scuola-lavoro oppure ai più attuali PCTO).
Se guardiamo agli altri Paesi, tuttavia, la strada è ancora lunga.
Perché quello che è pratica usuale, ad esempio, in Germania (appunto un collegamento fisiologico tra scuola e lavoro) non lo è da noi?

 

In Italia, dobbiamo avere l’onestà intellettuale di ammetterlo, esiste una separazione pratica e concettuale tra Scuola e Lavoro. Da una parte esiste la Scuola (il ragazzo ‘deve studiare e basta’), dall’altra il Lavoro. Questa separazione, tutta italiana, si è rivelata negli anni dannosa e diseconomica. Dannosa perché, quando il percorso di studi formali finisce, ci si può trovare dinnanzi una generazione che i sociologi della educazione chiamerebbero affetta da ‘shock da realtà’. Diseconomica perché un tale ‘shock’, in certi casi, porta dritto dritto al fenomeno, molto evidente nel nostro Paese, dei Neet.

 

Quindi, prima di qualsiasi iniziativa strutturale, in Italia è urgente maturare la consapevolezza dell’importanza del legame Scuola Lavoro. Una consapevolezza di spirito e di coscienza, prima ancora che strutturale, organizzativa e legislativa.
Eppure, per riprendere quell’ ’esprit’ anche da noi, basterebbe rifarsi alla tradizione cristiana dell’”ora et labora”[2], dove la preghiera è da intendersi come ‘studio’ e dove la commistione feconda dei due momenti, in un rapporto equilibrato, costituiva il valore aggiunto di una impostazione assolutamente moderna.
Oppure basterebbe ristudiare uno dei periodi più fulgidi del nostro Paese che è il Rinascimento.
Pensiamo alla bottega artigiana, luogo di pensiero e di lavoro nel quale si fondevano tutte le fasi di formazione dei giovani apprendisti: studio, formazione, produzione e, addirittura, commercializzazione. Anche nel nostro Paese, dunque, abbiamo una grossa tradizione che riguarda il rapporto armonico tra Scuola e Lavoro.
In Italia basterebbe limitare la tradizione gentiliana che fonda il suo approccio sulla separazione concettuale tra pratica e teoria ed attualizzare certe nostre radici.
È di fatto l’impostazione che pratica la Germania (e per certi versi anche la Francia) attualizzando talune tradizioni rendendole moderne.
Accanto a questa separazione di fatto, nel nostro Paese si è insinuata in tempi più recenti anche una altra ‘divisione percepita’ che affonda le radici dalla fine degli anni ’70 in poi.
Stiamo parlando della divisione tra un percorso di studi percepito come superiore e ‘intellettuale’ e un altro percorso di studi considerato di minore prestigio e indirizzato agli studenti meno qualificati.

 

Questa divisione comporta un percepito sociale terribile che, nei fatti, si pone come stigma nella fase delle scelte scolastiche operate dai ragazzi e dalle famiglie.E’ del tutto evidente che, in tale situazione in cui la separazione tra gli indirizzi scolastici crea una sperequazione vissuta come ‘qualitativa’, anche tutti gli sforzi di ‘orientamento scolastico’ subiscono questa diffusa percezione errata.

 

Di conseguenza i ragazzi sono orientati a rivolgere  le loro scelte verso percorsi di studi ‘più socialmente accreditati’, magari uccidendo quelle che erano le loro inclinazioni reali, producendo anche un  gap (mismatch) profondo tra i fabbisogni del mondo del Lavoro (pensiamo a quelli delle imprese) e le competenze prodotte dai percorsi scolastici. Il divario sarà sempre più evidente se non si esce da questa dannosissima ulteriore separazione tra competenze concettuali e competenze esperienziali. Tra percorsi di studio liceali oppure tecnico professionali.
Per dirla con Ferrarotti [3] qualsiasi ‘azione manuale’ è sempre ‘orientata teoricamente’. Questa separazione non esiste.
Anche Richard Sennett [4], sociologo del lavoro statunitense, nella sua opera “L’uomo artigiano” racconta di ingegneri romani e orafi rinascimentali, di tipografi parigini del Settecento e fabbriche della Londra industriale per dimostrare cosa?
Per raccontare la complessità delle competenze richieste da qualsiasi lavoro, non solo intellettuale ma anche pratico.
Pensiamo all’artigiano orafo o al restauratore: capiamo bene che in loro non vi è solo la tecnicalità nata dagli anni di esperienza sul campo ma vi è anche la conoscenza teorica che attribuisce correttezza alla loro azione.
Un restauratore deve avere contezza di elementi di storia dell’Arte, ad esempio, ma anche della composizione e delle reazioni chimiche dei prodotti che adopera nel suo lavoro.
Questa impostazione è ancora più vera se pensiamo ai nuovi artigiani, i Makers, per i quali la complessità delle competenze possedute (assieme pratiche e teoriche) è nei fatti.
Soltanto la profonda conoscenza del mondo digitale e la capacità di studiare le innovazioni consentono ai nuovi artigiani digitali di essere competitivi nel mercato.
Insomma, anche in questo caso, possiamo affermare che qualsiasi percorso formativo non è qualitativamente inferiore o superiore a nessun’altro poiché anche quello caratterizzato da una preparazione  professionale non si riduce a  tecnicismo ma richiede sempre una impostazione concettuale.
Piuttosto, ciascuna scelta deve rispondere solo alle diverse inclinazioni dei ragazzi e consentire loro di esprimere al meglio i personali talenti.
Citando Sapell i[5] “(…) il lavoro, la cultura umanistica e la tecnologia crescono e si alimentano contaminandosi interattivamente.(…)”  in un continuum tra dimensione concettuale e pratica.
Conoscere i sistemi di istruzione ed educazione dei Paesi a noi vicini ci consente di riflettere non in teoria ma sulla base di esperienze fatte e ci permette di  considerare, per analogia e differenze, se accettare qualche suggerimento volto a migliorare la nostra Scuola.
Non tanto per copiare i modelli altrui (poiché sarebbero inconguenti con le caratteristiche del nostro Paese), ma per riscoprire in larga scala quello spirito che è tutt’ora vivo nella storia e nella cultura del nostro Paese.

 

Foto di MESSALA CIULLA da Pexels

 

[1] https://www.ahk-italien.it/it/news/detail/le-aziende-italiane-continuano-a-puntare-sulla-formazione-e-sul-modello-duale
[2] Per un approfondimento https://ora-et-labora.net/oraetlabora.html – Ora et labora è frase molto nota e spesso citata, a esortare a una vita attiva, non dedita solamente allo studio, alla speculazione o alla contemplazione mistica
[3] Franco FERRAROTTI – La sociologia storia concetti metodi – 1967 (…) Ferrarotti si sintonizza con il pensiero del saggista e storico della scienza Charles Percy Snow che nell’opera The Two Culture and a second look del 1964, auspicava l’avvento di una cultura ‘terza’, capace di oltrepassare i pregiudizi che dividevano gli umanisti dagli scienziati (il termine ‘terza cultura’ verrà successivamente reintrodotto e sistematicamente utilizzato dall’agente letterario John Brockman). Per un ‘approfondimento’ https://www.doppiozero.com/leredita-di-ferrarotti-teorico-sul-campo
[4] Richard Sennett – L’uomo Artigiano – 2013 – «Nei momenti difficili un’intuizione forte può dare senso e concretezza a bisogni diffusi. Tale è l’uomo artigiano, ovvero l’homo artifex, che persegue per sé e per la propria personale soddisfazione la ricerca dell’opera quasi perfetta, del buon lavoro fatto con arte, intelligenza, sapienza manuale e conoscenza. Torna oggi con forza questo desiderio, a ben vedere quasi innato nella nostra natura, contro la mediocrità e il “basta che sia fatto”. Il libro di Sennett è un valzer tra presente e passato, tra antiche botteghe dove si formavano i Raffaello o venivano levigati e assemblati in aurea misura gli Stradivari che ancora ci incantano, e moderni laboratori dove si cucina un delizioso poulet a la d’Albufera o si mette a punto il sistema Linux, per scoprire – attraverso ciò che la scienza ci insegna e la società ci chiede – come funziona la sinergia mente-mano-desiderio-ragione, che ha fatto grande il mondo occidentale».
[5] Giulio Sapelli – L’Emergenza Educativa in Italia – I Quaderni della Fondazione Germozzi – 2021