Nel corso del mio lavoro i miei incontri con i giovani mi hanno  suscitato un grande coinvolgimento, mi è sempre piaciuta la loro curiosità e la loro capacità di meravigliarsi, qualità queste che nel corso della vita tendono spesso ad offuscarsi. Allo stesso tempo ho sempre avvertito, nei miei incontri con loro, la loro intima verità che esprimono non tanto a parole quanto piuttosto nel  modo di presentarsi, di comportarsi  e di comunicare. Spesso non ne sono neppure consapevoli, si manifestano nei loro ritiri, nei loro rifiuti, nelle reticenze e nelle aperture verso gli altri e negli entusiasmi improvvisi che sembrano travolgerli. Poi nel corso della vita tutto questo tende ad appiattirsi quasi fosse necessario adeguarsi ai canoni della vita sociale. Ed è incredibile che una volta adulti i ricordi dell’adolescenza tendano poi a sfumare, rimangono solo  immagini di alcune situazioni ma gli stati d’animo, le paure, le mille elucubrazioni  scompaiono definitivamente.  Quel periodo si caratterizzava per il groviglio di emozioni difficili da districare, così immediate ed improvvise che si spegnevano come un fuoco di paglia.

 

Purtroppo solo negli ultimi anni, anche dopo la pandemia da Covid, si è iniziato a comprendere quanto l’età giovanile sia un periodo della vita difficile, di migrazione dall’infanzia all’età adulta con tempi lunghi punteggiati da fasi di rallentamento e addirittura di blocchi, perdendo spesso la direzione di sé

 

Il destino di questa migrazione non è scontato, il giovane è come una biglia che corre lungo un crinale di montagna e può andare verso un versante o un altro. Con questa immagine si mette in luce la difficoltà a prevedere l’evoluzione dell’adolescenza e dell’età giovanile, perché possono intervenire influenze, ostacoli, esperienze e traumi che possono pregiudicare il suo percorso. E’ vero che la  precedente storia infantile ha un peso considerevole, tuttavia anche l’ambiente interviene fortemente ad indirizzare l’adolescenza verso una direzione o un’altra. Lo stesso cervello dei giovani è particolarmente sensibile agli stimoli e alle influenze sociali, secondo gli studi della neurobiologa Sarah-Jane Blakemore[1] sulla maturazione cerebrale accelerata  di questa fase dello sviluppo.

Per i genitori non è facile comprendere il mondo degli adolescenti e dei giovani, i figli si sottraggono, si chiudono nei loro silenzi, si ritirano nelle loro stanze evitando di manifestare quello che pensano. Forse coi loro coetanei comunicano di più, rimangono in ogni caso aree segrete che non condividono con nessuno, che spesso hanno a che fare col proprio corpo, che è una specie di sorvegliato speciale. Il corpo che va incontro a trasformazioni decisive viene costantemente osservato dagli adolescenti, scrutato e controllato quasi fosse un estraneo imprevedibile con cui convivere, incontrando a volte difficoltà a familiarizzarsi con lui.

 

Negli ultimi anni la condizione dei giovani è divenuta più difficile, come è testimoniato dal forte aumento di stati di ansia, di depressioni, di disturbi dell’alimentazione fino ai tentativi di suicidio che rendono travagliato questo passaggio all’età adulta

 

Sicuramente la recente pandemia ha pesato notevolmente sui giovani interferendo gravemente sulla loro vita sociale, obbligati a mantenere rapporti on line dovendo rinunciare alle esperienze e alle scoperte necessarie che caratterizzano questa età. Tuttavia come è documentato da molte indagini epidemiologiche dopo il 2012 è peggiorata la condizione dei giovani. Molti si sono interrogati sul motivo di questo cambiamento, che è stato attribuito al venire meno della famiglia tradizionale sostituita da unioni familiari meno capaci di guidare lo sviluppo dei figli. Allo stesso tempo i gruppi dei coetanei sono diventati fondamentali nella vita dei giovani  spostando il loro baricentro esistenziale dalla famiglia. I coetanei sono necessari perché svolgono il ruolo fondamentale di riconoscimento, tuttavia le esperienze all’interno del gruppo creano molte tensioni e competizioni con la paura di non essere all’altezza degli altri e col timore di essere rifiutati. Più recentemente si è cominciato ad indagare sull’influenza dei cellulari e dei social network sullo sviluppo degli adolescenti, che vengono usati dai ragazzi e dalle ragazze fin dall’inizio dell’adolescenza se non prima. Il cellulare ha modificato la vita dei giovani, che passano ore ed ore chattando a distanza oppure mettendo foto e video da condividere coi coetanei, sacrificando la loro vita personale in presenza come è ormai ampiamente documentato. Le ricerche effettuate hanno solo parzialmente confermato il rapporto fra difficoltà psicologiche ed uso dei cellulari, tuttavia il loro uso ha cambiato sostanzialmente il modo in cui i giovani organizzano la loro giornata, che si impoverisce di scambi ed esperienze sociali.

Rimane un paradosso, potremmo aggiungere uno dei tanti paradossi dell’adolescenza, oggi i giovani sono molto più liberi del passato, escono fino a tardi con gli amici, si muovono e viaggiano non solo con la scuola ma anche in gruppo, riescono a schivare i genitori che sono molto più accondiscendenti, hanno le prime esperienze sessuali senza essere ostacolati dai pregiudizi sociali. Accedono liberamente ai social network eppure nonostante tutto vivono un “malaise de l’existence”, di cui ci hanno parlato i filosofi esistenzialisti, come Jean Paul Sartre. Li incontri e dal loro viso traspare un malessere indefinibile, che  cogli dai loro occhi e dalle loro espressioni del viso.

Vale la pena di interrogarsi se le teorie psicologiche e psicoanalitiche siano in grado di entrare nel loro mondo e nella loro mente che è in continua evoluzione. Succede che sei convinto di aver capito quello che succede nella loro testa, ma poi realizzi che stanno procedendo in un’altra direzione. Inquadrarli in categorie si corre il rischio di guardarli con gli occhi degli adulti, come succede in numerosi manuali psichiatrici che adottano per i giovani in difficoltà modelli psicopatologici tipici dell’età adulta.

 

Come viene definito in un articolo del New York Times il mondo dei giovani, che oggi arriva fino ai 30 anni, è “una scatola nera”. Infatti sono ancora presenti la ricerca dell’identità, l’instabilità tipica dell’adolescenza, l’autoreferenzialità, il sentirsi fra due fuochi: il mondo adulto e la pubertà

 

Ma come definire questa fase dell’età giovanile che, in passato, veniva descritta, per esempio da Erikson, con l’espressione young adulthood, ossia “fase del giovane adulto”? Si potrebbe chiamare adultescenza, in riferimento a giovani che permangono nella fase adolescenziale nonostante si avvicinino all’età adulta. È un modo di essere che può prolungarsi oltre i 30 anni: si è concentrati su se stessi, incapaci di assumersi responsabilità nei confronti di un partner con cui convivere e soprattutto di avere figli, che implicherebbero un impegno, oltre che rinunce e sacrifici. Questi giovani danno l’impressione di procedere in una condizione di “stabile instabilità”, come se non avessero trovato ancora una direzione per sé, dal momento che continuano a crogiolarsi fra mille propositi e progetti, apparentemente inconsapevoli del tempo che passa. Sono velleitari e insofferenti di ogni vincolo e non sono disposti a fare rinunce, perché si attendono una soluzione improbabile che verrà a risolvere la loro vita.

Colui che ha dedicato la sua ricerca al tentativo di circoscrivere questa fase della vita giovanile, soprattutto nella società americana, è lo psicologo della Duke University Jeffrey Arnett, che ha coniato l’espressione “età adulta emergente (emerging adulthood)”. Si tratta del periodo che inizia dopo i teens – i twenthies, come dicono gli inglesi – ossia il periodo fra i 20 e i 30 anni. Non è una semplice fase di transizione verso l’età adulta, ma rappresenta, sempre secondo Arnett, un periodo definito del ciclo vitale teorizzato da Erikson. Si caratterizzerebbe per l’instabilità e per i cambiamenti che consentono esplorazioni in direzioni diverse, anche se contrastanti.

Più precisamente, secondo Arnett, l’età adulta emergente si colloca fra i 18 e i 25 anni. È vero che dal 2000, l’anno in cui è stato pubblicato l’articolo cui stiamo facendo riferimento, sono passati quasi vent’anni, duranti i quali l’ingresso nel mondo del lavoro e la conquista dell’autonomia personale e sociale si sono ulteriormente spostati in avanti. Ma siamo di fronte a una fase della vita dai confini incerti- proprio perché le influenze delle trasformazioni sociali la modificano- che può rappresentare la lunga coda dell’adolescenza oppure un lungo tempo di attesa dell’età adulta.

Mentre per Arnett il tempo limite per abbandonare definitivamente i territori dell’adolescenza è rappresentato dai 30 anni, in Italia la situazione è più complessa: il 75% dei trentenni con almeno uno dei due genitori, secondo il Rapporto Istat del 2016. Naturalmente, l’età media del matrimonio – quando avviene, perché è sempre più frequente la scelta della convivenza – ha raggiunto i 34 anni negli uomini e i 31 anni nelle donne.

 

Ciò che caratterizza questo periodo, annota Arnett, è il fatto che non si è ancora deciso nulla rispetto al futuro e rimangono aperte varie possibilità verso le quali incanalare la propria vita. Esso è inoltre contrassegnato da una serie di variazioni demografiche e di sviluppi imprevedibili

 

Per queste ragioni, forse è ancora valido quello che scrisse dell’adolescenza il sociologo Talcott Parsons nel 1942: è un periodo caratterizzato da “un ruolo senza ruolo”. Negli Stati Uniti, molti giovani vivono all’interno dei campus universitari; altri condividono l’appartamento con i coetanei; altri ancora vivono in coppia con un partner; infine c’è chi continua a vivere in famiglia. Ciò che sembra caratterizzare questa fase della vita è l’instabilità della propria residenza, instabilità che riflette l’incapacità di trovare una collocazione definitiva nella comunità degli adulti.

Secondo Arnett, in questo periodo i ragazzi sono ancora impegnati nel tentativo di conquistare l’autonomia personale e di assumersi la responsabilità delle proprie scelte, e forse il cervello ha una parte in questo, perché non ha ancora raggiunto la piena maturazione, in particolare i lobi prefrontali e il cervelletto, che sono le aree legate al controllo emozionale e alle funzioni cognitive di livello più elevato. La maturazione cerebrale, come ha mostrato il neurobiologo Jay Giedd, si realizza fondamentalmente attraverso il pruning, ossia la potatura dei circuiti cerebrali che non vengono utilizzati. Questa selezione dei circuiti cerebrali si completa intorno ai 25 anni, mentre i processi di maturazione delle fibre nervose sembrano avere un ritmo più lento.

L’articolo del New York Times che abbiamo citato pone un interrogativo interessante: si sta forse verificando un parallelismo fra la maturazione cerebrale e il prolungamento dell’adolescenza? In altri termini, è possibile che in passato ci fosse un’asincronia fra il raggiungimento di un’identità più strutturata, che si realizzava intorno ai 18-20 anni, e la maturazione cerebrale, più tardiva. Questa è un’ipotesi, ma forse ci si può chiedere, in accordo con i neurobiologi Han e Northoff, se non sia più verosimile che la costruzione psicologica di sé non vada di pari passo con la maturazione del cervello, che ha tempi più veloci, dal momento che l’acquisizione dell’identità adulta richiede che si affrontino esperienze quali l’ingresso nel mondo del lavoro o una relazione sentimentale stabile. Nello stesso articolo, ci si chiede se questa prolungata fase di esplorazione e di ricerca non rappresenti un privilegio consentito ai giovani dei Paesi più ricchi, che in questo modo hanno abbastanza tempo per scoprire le proprie attitudini e i propri interessi. Per certi versi, questa domanda ripropone il concetto di Erikson di moratoria sociale, la quale concede ai giovani la possibilità di esplorare e di riconoscere le proprie motivazioni. Se questo è senz’altro accettabile, occorre tuttavia mettere un limite a tale esplorazione e confrontarsi con la realtà, assumendosi la responsabilità di compiere delle scelte.

Volendo istituire un paragone, la condizione attuale dei giovani potrebbe essere accostata a quello che succede con le cellule staminali, che sono inizialmente indifferenziate, ma poi sono in grado di tipizzarsi rispetto all’organo in cui dovranno essere utilizzate. La stessa cosa accade agli adolescenti: rimangono a lungo in una condizione di indifferenziazione, prima di riuscire a definirsi in termini di identità personale. Anche in questo caso, è l’ambiente a favorire la tipizzazione, ossia a spingere i giovani ad assumere un’identità definitiva.

[1] S.J. Blakemore, Inventare se stessi. Cosa succede nel cervello degli adolescenti, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2018.

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