“Mililli tutta si rovinò alli pidamenti, il simile Avola; Agosta si rovinò di meta’”: le cronache locali di 330 anni fa raccontano cosa accadde la notte del 9 gennaio 1693, quando un forte terremoto di magnitudo 6.2 colpì la Sicilia sud-orientale provocando danni gravissimi ad Augusta, Melilli, Floridia, Avola e Noto, e danni seri in diverse località delle attuali province di Catania, Siracusa e Ragusa; questa scossa fu seguita nelle ore successive da numerose repliche fin quando, la sera dell’11 gennaio, un’altra violentissima scossa di magnitudo 7.4 devastò gran parte della Sicilia orientale e in particolare molte località del Val di Noto.   

“Appena dopo le scosse del 9 e 11 gennaio 1693 – spiega sulla rivista on line tafterjournal.it Lucia Trigilia, docente di Storia dell’architettura all’Università di Catania e autrice di vulumi sul Val di Noto – il vicerè nomina suo vicario generale per la ricostruzione Giuseppe Lanza Duca di Camastra. “I protagonisti riescono – prosegue la studiosa – nell’immane impresa di tramutare la sciagura in “occasione'”.  

Le classi dirigenti spagnole mettono in moto un sapere artigiano che nei cantieri trova la sua massima espressione e negli architetti stimola il confronto con quanto accade nell’architettura europea. “La cultura del progetto e la cultura del cantiere – prosegue Trigilia su tafterjournal.it – non di rado costituiscono un’unità inscindibile. Ma sono spesso i capimastri e le maestranze artigiane ad assumere le funzioni direttive e progettuali del cantiere. La tradizione artigiana si perpetua qui di padre in figlio, all’interno di famiglie che costituiscono delle vere e proprie ‘dinastie’, cui non sfugge il controllo della produzione architettonica”. 

Capimastri, artigiani, operai, e ‘politici’ non si fanno intimorire dalle repliche delle scosse, che si susseguono per almeno altri due anni e si mettono all’opera già quattro mesi dopo i terremoti di gennaio. 

Leggi l’articolo "Il sisma del 1693 in Sicilia e la lezione dal 'set' del Barocco pubblicato" (AGI)