Il Pil italiano supera, secondo le stime di Eurostat, quello di Francia e Germania attestandosi al secondo posto nell’Eurozona in termini di percentuale di crescita. Non solo. Anche da Istat arrivano segnali incoraggianti: +0,5% rispetto al trimestre precedente e +1,8% rispetto ai primi tre mesi dello scorso anno. Il risultato è dunque soddisfacente. Permane, tuttavia, la necessità da parte delle imprese di reperire manodopera – qualificata o da formare – per mantenere standard di competitività e garantire il corretto andamento dei cicli produttivi. Le offerte di lavoro si sprecano. Ma le risposte, spesso, stentano ad arrivare. Tra le imprese più penalizzate ci sono senz’altro quelle del comparto artigiano. Alla base di tutto questo, al netto degli aspetti demografici, c’è un fattore culturale. E, sul piano della formazione, una “cecità ideologica”. Siamo partiti da qui per la nostra analisi sul futuro dell’artigianato e la proiezione del comparto nel futuro, conversante con Giuseppe Bertagna, professore ordinario di pedagogia generale all’università di Bergamo nella quale ha fondato, nel 2005, il Centro per la Qualità dell’Insegnamento e dell’Apprendimento.

 

Professor Bertagna[1], stiamo vivendo il paradosso di avere moltissima richiesta di maestranze da parte delle imprese e pochissima manodopera disponibile. A cosa è dovuto questo fenomeno che, trasversalmente, mina la competitività delle nostre imprese?

«Non voglio fare il sociologo, il giuslavorista e nemmeno il giornalista. Tre figure che riempiono ogni giorno le cronache dei mass media rispondendo alla sua domanda. Preferisco mirare ad una causa, credo, più radicale. Finora, e da millenni, il lavoro è stato intimamente connesso alla natura, all’identità e alla stessa dignità delle persone umane. «Chi non lavora non fa l’amore» cantava ancora Adriano Celentano nel 1969. Un uomo senza l’intelligenza e la fatica fisica e morale connessa al lavoro produttivo, inventivo, trasformativo è come se fosse stato dimezzato, privato di una dimensione essenziale del suo possibile, integrale fiorire. Oggi la mentalità diffusa sembra però diversa. La natura, l’identità e la stessa dignità delle persone pare essersi spostata dal lavoro al consumo ostentativo. Chi non può essere consumatore di beni e servizi, per lo più dettati dalla moda o dalla comodità, non fa l’amore dovrebbe cantare oggi Celentano.  Come se il diritto alla soddisfazione dei desideri e dei piaceri potesse esistere, per gli uomini, senza, anzitutto, il dovere di discriminarli tra buoni e cattivi per sé e per agli altri e, in secondo luogo, senza il dovere di realizzare quelli buoni tramite il costante impegno del lavoro personale che diventa di per sé stesso anche sociale. E come se si potesse consumare senza prima produrre ricchezza e, allo stesso tempo, senza mai distinguere nel merito i gradi di necessità delle cose prodotte».

 

Negli anni passati si è commesso un errore culturale: avviare i ragazzi alla formazione professionale e tecnica è stato reputato a lungo un disvalore o c’è altro?

«Per quello che vale, ho passato la mia vita professionale a combattere con e su riviste e libri queste idee scadute che, con Paul Krugman, possono essere chiamate “zombie”. Speravo di festeggiare i 100 anni della riforma Gentile vedendole, in un mondo ormai digitale e da industria 5.0, definitivamente seppellite. Vana speranza. Purtroppo resistono fino all’autolesionismo nazionale ancorché smentite da prove empiriche e soprattutto epistemologiche e pedagogiche inconfutabili. Cecità ideologica di chi le coltiva o anosognosia di incompetenti convinti di essere i prototipi dell’esatto contrario?  In ambedue i casi c’è molto più di qualche motivo di preoccupazione».

 

Il governo, recentemente, ha proposto di istituire un ‘liceo del made in Italy’, per provare in parte ad arginare questa mancanza. La trova una ricetta efficace?

«Tutto ha un senso preso come parte. Ma è sempre il tutto che dà il senso prospettico ad ogni parte. Ed è questa la sfida da vincere.  Trovo quindi efficace l’ipotesi del liceo del made in Italy, ma a due condizioni. La prima che essa si inserisca in un campus formativo unitario del secondo ciclo, nel quale si superi non a parole ma nei fatti la tradizionale, storica e iniqua gerarchizzazione tra licei, istituti tecnici (che aspettiamo a trasformarli in tecnologici? Il post human?), istituti professionali e Iefp (istruzione e formazione professionale delle Regioni). La seconda condizione: che si innovi, come da venticinque anni si tenta inutilmente di fare, il modello didattico-organizzativo del sistema scolastico italiano, caratterizzato, per ragioni sindacali e politiche, non certo didattico-pedagogiche, da quattro elementi: a) la meccanica assegnazione dei docenti ad ambiti di insegnamento predefiniti centralmente, per di più con  forti resistenze sindacali al loro utilizzo in rapporto alle reali necessità formative degli studenti e dei territori; b) l’articolazione del curricolo in blocchi annuali, così da suggerire agli studenti e ai docenti una logica valutativa corta e ridotta a numeri; c) un quadro orario ancora diviso come due secoli fa per discipline e per classi di concorso che prescindono dalle effettive competenze e sensibilità culturali e professionali dei docenti e degli studenti; d) infine, le classi costituite per cluster di età omogenei, come i plotoni alla leva militare, a cui indirizzare insegnamenti uniformi,  da fordismo, invece che personalizzati».

 

L’artigianato, spesso, nell’immaginario delle giovani generazioni è percepito come qualcosa di ‘antico’, da abbandonare. Come rendere appetibile il mondo dell’artigianato per i ragazzi?

«L’arti-giano è etimologicamente «chi genera arte (l’ars latina, la techne greca». E che sviluppa questa generazione adoperando attrezzi, mezzi (anche tecnologici) che sono però un prolungamento intenzionale del proprio cuore, della propria mente (ma meglio sarebbe dire “spirito”) e del proprio corpo, e delle mani in particolare. Un’unità integrale già in sé stessa formativa per le persone. La produzione arti-gianale non può essere infatti di massa. Come quella delle «macchine» in serie. Per natura, la produzione artigianale è sempre personalizzata. E lo è sia nel senso attivo di chi la pratica sia in quello passivo di chi la fruisce. Se non così, essa perde giustamente la competizione con i prodotti seriali. Per dire insomma che solo chi è creativo, colto al punto di saper parlare con tutti e con ciascuno, saggio nelle cose del mondo ed amante del bello può essere oggi arti-giano. Uno che lascia il segno, non si lascia vivere soltanto da consumatore o da esecutore, ma, soprattutto, perfeziona sempre più sé stesso, migliorando insieme l’intera società. Quasi un prototipo della cultura e della buona educazione».

 

La manifattura artigiana è ciò che ha reso famosa l’Italia nel mondo ma, senza artigiani, c’è il rischio che questo patrimonio immenso venga disperso. Invertire questa rotta è inevitabile. Quale può essere in questo senso secondo lei il ruolo che devono esercitare i corpi intermedi?

«I corpi intermedi si chiamano così perché sono il frutto della relazionalità di ogni persona. Nessuno può vivere da solo. Né può essere autosufficiente. Ecco allora che le persone, per amicizia e/o per risolvere meglio i problemi che incontrano nella vita del proprio tempo, si mettono insieme volontariamente e danno origine sia a quelle «formazioni sociali» di cui parla la nostra Costituzione (la famiglia, l’impresa, la cooperativa, il sindacato, il gruppo di volontariato, i partiti, le associazioni professionali, i comuni, le province, le regioni ecc.) sia alle istituzioni dello Stato. La Repubblica è l’insieme di tutte queste articolazioni. È per questo che lo Stato e le sue istituzioni devono essere essenziali, non ispirarsi cioè al modello della cuscuta che vive soffocando le altre piante. E che le «formazioni sociali» immaginate dalla nostra Costituzione devono essere vitali, aperte, ricche di autonomia e di responsabilità. Senza questo equilibrio tra Stato e società non si può sognare la «tenuta» del made in Italy e il rilancio dell’artigianato come nuovo, possibile Rinascimento».

 

È immaginabile un sistema educativo che metta in dialogo, sempre più stretto, il mondo delle categorie e quello della scuola per ovviare alle esigenze espresse dalle aziende e indirizzare la formazione, colmando anche il gap occupazionale?

«Vent’anni fa, a dire il vero, questo immaginario di cui parla si era perfino tradotto in provvedimenti di riforma (riforma Moratti). Uccisi in grembo. Anche con cattiveria. Dopo vent’anni persi, perfino nei rilanci parziali (nel 2015, ad es. con l’alternanza scuola lavoro), bisogna dire con Primo Levi: «se non ora quando»? Il proverbio dice che l’intelligente impara dai propri errori, il saggio impara anche dagli errori altrui, solo il fazioso e lo stupido perseverano nello sbaglio. Speriamo che le prime due categorie abbiano più adepti della terza, purtroppo l’unica che infesta e vampirizza le altre due. E che una riforma autentica del sistema scuola nella direzione che lei auspica sia in arrivo».

 

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Bertagna

 

Foto di Hamed Mehrnik da Pixabay