Le recenti e confuse dispute politiche sulla ipotesi di un salario minimo legale – al pari di quelle relative alla occupazione dei giovani e alla conseguente proposta di riscrivere radicalmente le leggi su tirocini e apprendistato – ci ricordano come in Italia il tema del lavoro sia affrontato in modo quasi sempre semplicistico. Un terreno che via via diventa sempre più arido, perché arato solo da un punto di vista normativo e senza un reale dialogo con gli attori sociali. Una rincorsa alle regole lontana dai bisogni reali di persone e imprese, utile ad alimentare sterili divisioni e contrapposizioni ideologiche, senza che dietro vi sia una analisi sociale di spessore capace di spiegare tendenze e direzioni delle radicali trasformazioni in atto nella economia e nella società.

 

Eppure basterebbe guardare al dinamismo dei corpi sociali per rendersi conto della possibilità di percorrere sentieri diversi e anche più rassicuranti. Non tanto con riguardo alle scelte di merito – che sono sempre difficili rispetto ai cambiamenti radicali degli ultimi anni, segnati da due crisi epocali (quella del debito sovrano e quella pandemia), che paiono ancora incerti nei loro esiti – quanto nel metodo che è quello della condivisione e della tensione verso un bene comune.

 

Esistono infatti settori produttivi che, da tempo, hanno messo alle spalle la stagione della conflittualità e dell’antagonismo di classe per sviluppare percorsi di bilateralità riconosciuti già venti anni fa, dalla legge Biagi, come strumento privilegiato per il governo dei nuovi mercati del lavoro nelle comunità locali e con riferimento alla costruzione in ambiente di lavoro delle competenze e professionalità richieste dalle imprese. Di modo che la conclusione di un contratto collettivo non sia una terra di nessuno, da affidare ai consulenti del lavoro per gli adempimenti formali in attesa della sua futura scadenza, ma l’occasione per coltivarne giorno dopo giorno l’attuazione privilegiando, nel conflitto di interessi, quelli comuni che sono la sostenibilità delle imprese e la qualità della occupazione.

È questa la sfida da cogliere, perché la contesa del lavoro deve oggi più che mai mettere prima di tutto al centro del confronto lo sforzo per la creazione di valore affidando il tema redistributivo a una fase successiva, che non si può certo negare nella sua importanza, e che però può oggi trovare risposte solide non nelle politiche pubbliche costruite su debito che ipoteca il futuro, ma in maggiore produttività e crescita per tutti, salari compresi.

 

La bilateralità e il bilateralismo sono proprio questo: una filosofia attraverso cui intendere e interpretare modernamente il ruolo di attore sociale facendosi carico di rappresentare persone e imprese e non vuote ideologie come unica strada per cercare, in modo pragmatico, soluzioni in larga parte ancora da inventare secondo percorsi condivisi da chi capisce di dover stringere una alleanza non solo per sopravvivere ma per costruire un futuro migliore di quello che abbiamo ereditato.

 

È vero che esiste una questione salariale in Italia. Ma chi non vuole farsi carico di alimentare inutile attese e speranze, in vista di una competizione politica sempre dietro l’angolo, sa che le risposte vanno cercate partendo dalle fondamenta. Il che vuol dire formare i lavoratori di domani, attrezzandoli delle competenze e professionalità richieste suoi nuovi mercati; intrecciare rapporti strutturati e positivi con il sistema scolastico e universitario; rilanciare l’apprendistato e l’alternanza formativa; costruire reti di protezione di prossimità, sul lato previdenziale ma anche della sanità integrativa, per gestire le sempre più frequenti transizioni occupazionali e le politiche di conciliazione; dare accesso al mercato del lavoro a tutte le persone, compresi i gruppi più vulnerabili, che sono un valore per imprese radicate nel territorio e nelle comunità. Sanità, formazione continua, formazione iniziale, previdenza, politiche attive, ammortizzatori sociali, buone relazioni industriali, partecipazione: sono tutti temi che devono essere affidati alle relazioni industriali più che all’attore pubblico per ripensare i modi di lavorare e produrre senza alimentare le vecchie e fallimentari politiche assistenzialistiche che non creano valore e anzi drenano risorse per il rilancio della nostra economia e per una vera e duratura risposta al bisogno.

La grandezza della bilateralità e del bilateralismo è tutta qui, nello sforzo di interpretare e rendere giorno dopo giorno vivo, lontano dai riflettori della politica e di un dibattito pubblico sempre più superficiale, lo spirito pragmatico delle relazioni industriali che, non a caso, si sono sempre tenute lontane dalle grandi e ingombranti ideologie del secolo scorso per rispondere concretamente ai problemi del lavoro. L’esperienza di settori come l’artigianato è sotto gli occhi di tutti e deve ora diventare la regola per superare i condizionamenti di un Novecento industriale che è da tempo finito e che tuttavia è ancora oggi il parametro di riferimento dei decisori politici. Salvo poi sorprendersi del fallimento di riforme pensate per un mondo che non c’è più.