Osservo una importante ripresa di attenzione al tema del valore del brand, riferito alla nostra Confederazione e al nostro sistema, che si accompagna ad una crescente disponibilità ad azioni che lo rafforzano.

Valgono in proposito il dettato dell’articolo 2) del preambolo allo statuto confederale (“il brand di Confartigianato Imprese è quindi un valore in sé, attorno al quale si caratterizzano la storia e i principi del sistema associativo confederale e si identifica il saper fare di imprese e imprenditori”) e la previsione della disciplina del logo, nel diritto-dovere di utilizzarlo, definita all’articolo 1) del regolamento attuativo.

Per un’azienda-istituzione, come la nostra, così come per tante altre organizzazioni di rappresentanza degli interessi, il tema del valore di brand si intreccia necessariamente con il tema della reputazione associativa, quindi delle associazioni che compongono il sistema e del sistema stesso.

Do per condiviso il concetto di valore di brand, con il patrimonio di storia, immagini e valori che esso incorpora, con i suoi pilastri che vanno dagli scopi dell’associazione, al suo carattere, alle competenze in azione fino ai segni tangibili della sua presenza.

Ci sarebbe la necessità di declinare tutto ciò in ambiente associativo, nel quale gli scopi e le aspettative che essi generano scontano logiche sensibilmente diverse da quelle aziendali alle quali si ispira la letteratura sul tema e fanno i conti con le differenziazioni connesse alla ricchezza dei nostri modi di essere e di fare associazione. Ma non è il tema al centro della mia breve riflessione.

La reputazione, per me fattore importante e determinante per un’associazione, tanto più articolata e territorialmente presente come la nostra, è tema complesso anche perché racchiude percezioni, aspettative, grado di fiducia e stima, valutazione dei fatti.

Il valore della reputazione si differenzia dal valore di brand, che tendenzialmente è condizionato da immagini, emozioni, mutevolezza dei contesti che producono cambiamenti di percezione.  Ha una costruzione lenta, che è conseguenza della somma dei comportamenti reali dei tanti ambiti associativi ed è il risultato in costante aggiornamento dell’attività associativa e del suo impatto interno ed esterno all’associazione.

La reputazione ha conseguenze e orizzonti di medio-lungo termine. Premia condotte coerenti, le quali a loro volta generano fiducia.

E’ diretta conseguenza della presenza e delle azioni di una associazione, in un contesto economico e sociale dato, e consiste in un giudizio di valore da parte del pubblico. Dipende dalla qualità della comunicazione e dalla qualità delle relazioni, meglio intese come rapporti tra persone.

Traguarda e proietta in avanti gli obbiettivi e punta ad affermare un ruolo dell’associazione nella società, nel sistema, nell’ambiente di lavoro ove ciascuno di noi opera.

La reputazione chiede rendicontazione, con la quale si può conquistare fiducia, credibilità, stima.

 

Mentre il concetto di brand ha a che fare con l’influenza sui comportamenti, la reputazione si completa con l’approvazione sociale che a sua volta condiziona positivamente i comportamenti, alimentando una sorta di circuito virtuoso.

 

Per una organizzazione di rappresentanza che, come nel caso nostro, chiede consenso e vende fiducia con la quale valorizzare, nell’ambito del mandato di rappresentanza, servizi, consulenze, azioni sindacali, la reputazione ha un valore reale e potenziale del quale occorre essere sempre più consapevoli. Ci viviamo dentro e, forse per il fatto che ne siamo immersi, non la osserviamo con il necessario distacco e non le diamo il giusto valore.

Provo a ricordare le principali conseguenze della buona reputazione e di ciò che essa può rilasciare nei diversi contesti.

Stima, credibilità e fiducia, che ne sono componenti caratteristiche, rappresentano innanzitutto una delle principali armi di pacifico convincimento di cui possiamo disporre.

Può essere fatta valere nel rafforzare il rapporto con i soci e con le persone che fruiscono della nostra offerta associativa; può valere come argomento implicito nelle nostre azioni di promozione associativa verso imprese e persone che non ci frequentano.

E’ fattore di scambio con i decisori, pubblici e privati, a tutti i livelli, dalle amministrazioni comunali, passando per i tanti organismi istituzionali ed economici territoriali, fino a Parlamento e Governo.

E’ fattore di positiva influenza nel dialogo e nella collaborazione con organismi funzionali e strumentali locali e nazionali, dalle istituzioni scolastiche territoriali ai grandi enti nazionali, Inps o Agenzia delle Entrate che siano.

La buona reputazione, in quanto incorpora credibilità, facilita le buone negoziazioni, dai contratti di lavoro alle intese con altri decisori associativi, come ad esempio nel caso degli accordi con ABI, e rende più praticabile ogni sorta di mediazione.

Dovrebbe rappresentare il liquido in cui essere costantemente e consapevolmente immersi. La reputazione, in quanto stima sociale accumulata, è trasferibile, concetto da usare con la dovuta attenzione, anche ai soci che, dichiarando l’appartenenza associativa, ottengono un plus valutativo nelle loro più svariate interazioni.

Questo concetto di trasferibilità apre scenari intriganti. Ad esempio: se la mia associazione crede e opera per la sostenibilità, appartenendovi, posso non solo vantare di esserne membro ma utilizzare la mia partecipazione attiva nei confronti di enti che ne danno valore, come nel caso delle banche (posso, ad esempio, documentare che mi fornisco di energia da fonti rinnovabili e che, ecco la sottolineatura, sono parte della costruzione di un sistema che riduce la dipendenza da fonti fossili)

Può valere nella considerazione sociale della singola azienda, nella costruzione del suo employer branding, nel rapporto con fornitori e clienti.

Sia chiaro, non è sufficiente viverci passivamente al riparo, ma occorre utilizzare attivamente le luci riflesse dalla reputazione associativa nella socialità, nel welfare, nei rapporti con la scuola, nelle azioni di promozione.

Vale e dovrebbe essere fatta valere nella negoziazione con gli uffici pubblici, che siano un ufficio tecnico comunale, un ufficio per il rilascio di passaporti, un ufficio di una unità sanitaria locale.

 

Appartenere significa quindi poter utilizzare la luce riflessa della reputazione e al tempo stesso sapere di poter contare sull’associazione, sulla sua capacità di intervento e laddove occorre anche di denuncia.

 

In definitiva la possibilità di fruire della reputazione dell’associazione rilancia l’utilità ed il valore dell’appartenenza.

La reputazione può essere fatta valere anche nella ricerca di personale per le nostre associazioni. Queste hanno bisogno crescente di competenze professionali che, spesso, contendiamo ad altri soggetti. Incorporare e vantare buona reputazione paga quindi in fatto di competitività, di motivazione nel progetto di lavoro, nel riconoscersi nella storia aziendale.

La buona reputazione facilita, come dicevo poco fa, il confronto con il decisore pubblico, rafforza l’attività di lobby; è fattore di persuasione, talvolta di scambio.

Non è argomento nuovo ma è una caratteristica della forza associativa che nel tempo ha cambiato i connotati. Con il voto “laico e fluido” i decisori non guardano alle associazioni come serbatoi elettorali, ma ne utilizzano la reputazione come fattore legittimante nelle loro proposizioni.

La reputazione rafforza inoltre la costruzione di un sistema associativo. Il tutt’uno organico che il sistema rappresenta restituisce alle singole componenti un valore aggiunto. Vale anche il percorso inverso. Le singole componenti che godono di reputazione, ad esempio le associazioni territoriali di una confederazione, irrorano il sistema e ne rafforzano il potere di rappresentanza.

Non resta, e sarà il prossimo impegno, che osservare come si costruisce, si accresce e si manutenziona la reputazione associativa. E anche come si deve evitare di perderla.

Foto di Tumisu da Pixabay